Viene subito in mente David Lynch di Una storia vera quando Beshay prepara asino e carretto per andare via dalla colonia nel deserto in cui la società lo ha confinato fin da bambino a causa della lebbra. Inizia quasi così Yomeddine opera prima dell’egiziano Abu Bakr Shawky (padre egiziano, madre austriaca e studi in cinema al Cairo e alla New York University) scelto con sorpresa come unico esordio per il concorso ufficiale di Cannes. Deforme a causa della malattia, Beshay vive vendendo gli oggetti che trova in una grande discarica poco lontano da “casa”, in mezzo al deserto, tra freak di ogni tipo che lo sostengono e lo amano. Dopo aver perso la moglie malata di mente, ora vuole ritrovare la sua famiglia, di cui non ricorda nulla (salvo poi ricostruire via via il suo passato in visioni fulminanti, l’abbandono da parte del padre, l’immagine di sé allo specchio quando ancora non era malato) per conoscere le sue origini e trovare il suo posto nel mondo. “Tutti abbiamo una famiglia” dice al bambino Obama, che fugge ogni giorno dall’orfanotrofio in cui vive per stare con lui. “Se io ne avessi una vorrei cercarla”, gli risponde il bambino innescando l’idea del viaggio e del riscatto di una vita trascorsa in esilio. E così i due si mettono sulla strada, senza sapere nulla del percorso né del mondo verso cui stanno andando. E il mondo non si fa aspettare, anzi, si presenta puntuale con tutte le difficoltà di una situazione di questo tipo. Stanchezza, ladri, incidenti, persino la polizia che lo arresta (ma lo scaltro compagno di cella lo aiuta ad evadere), l’asino che muore, ruderi egizi abbandonati da sempre sotto il sole abbagliante e gli sguardi taglienti di chi ha paura del volto sfigurato di Beshay.
Un uomo e un bambino da soli lungo una strada che sembra interminabile, per dare il tempo ad entrambi di abituarsi al paesaggio umano, mentre la macchina da presa sempre in movimento li segue e li interroga e cerca nei loro gesti un ritmo di poesia. Le mani smozzicate dell’uomo,che non sempre riescono, la vivacità di Obama (si chiama “come il tipo in tv”) che lo circonda e lo protegge. Una storia semplice raccontata con semplicità e attenzione alle piccole cose, con sguardo complice, capace di identificarsi nei personaggi e nel loro modo di “guardare” ciascuno il proprio compagno di avventura. Omaggio al cinema popolare egiziano, che non teme le convenzioni, anzi, se ne serve e le amplifica (come la musica che esplode ad intervalli regolari perché troppo forti sono i sentimenti), ma con i “necessari” riferimenti occidentali, a partire dalla forma stessa del road-movie, da sempre in grado di semplificare e aggirare i passaggi più delicati. “Verrà il giorno in cui tutti gli uomini saranno uguali e nessuno sarà giudicato dall’apparenza” dice a Beshay l’uomo senza gambe alla periferia di una città di passaggio. Il giorno del giudizio (yomeddine in arabo, appunto) è la promessa cui si aggrappano tutti, perché non c’è altro modo per superare le sopraffazioni.