Esce on demand Favolacce: la reazione a catena dei Fratelli D’Innocenzo

Villette a schiera, l’estate torrida, i giardini sonnecchianti delle case in vacanza, famiglie disadattate all’immobilità della controra esistenziale in cui galleggiano, apparentemente sazie, corpi morti di un mondo che soddisfa solo l’insoddisfazione dei viventi. Padri frustrati e violenti, madri annoiate e indolenti, figli pressati e indifferenti. Accenti, tipologie e caratteri sono indiscutibilmente romani, pronipoti dell’accattonaggio pasoliniano irregimentato nel nostro presente, ma il mondo che Damiano e Fabio D’Innocenzo raccontano in Favolacce (in Concorso a Berlino 70) è universale, scritto con il realismo paradossale delle fiabe eterne, nutrito da riferimenti letterari lontani dalla loro esperienza nella provincia capitolina in cui sono cresciuti: una Spoon River del nuovo millennio, come dicono loro stessi, per un film che si allontana da ogni modello di riferimento del cinema italiano. Favolacce ha una potenza incredibile proprio perché si nutre di una tensione evocatrice, disconosce il realismo, trascura qualsiasi soggettivtà, disperde l’identità narrante in una narrazione identitaria che infatti risponde alla voce impersonale di un narratore non collocato (magistrale Max Tortora in voice over), che si impossessa del diario interrotto di una ragazzina e ne riempie le pagine con l’istinto di un narratore onniscente, anzi onnipotente. Come una divinità del dire che, infatti, dice sino in fondo, con esibita incongruenza, le tragedie in corso dietro l’apparente normalità di quella schiera di villette vacanziere. Tre famiglie nel caldo dell’estate: quella dei Placido, papà Bruno (Elio Germano) tirato nella nevrotica apparenza di serenità, mamma Dalia (Barbara Chichiarelli), nevroticamente succube del suo uomo, e i due figli Denis e Alessia, quieti, tranquilli, bei voti a scuola, amaramente maturi, come tutti i bambini di questa comunità ristretta. Come i loro compagni di scuola e di giochi, che li affiancano nel primo piano diffuso in cui i D’Innocenzo si spingono, affidandosi a uno sguardo che spiazza ogni baricentro possibile, sia narrativo che psicologico, morale, esistenziale.

 

 

Il film è spinto su un piano inclinato in cui il confronto tra la verità e l’apparenza delle azioni e dei gesti è posto in essere nel bagliore di un controluce che evidenzia i contorni e oscura le figure. Sicché ti trovi incastrato in una scena drammaturgica che ti stupisce ogni volta, ti sposta con spinte violente dal racconto dell’estate lieve e infelice di un gruppo di ragazzini alla messa in scena di un quadro umano e sociale composto da adulti schiantati contro la loro inadeguatezza al vivere. I ragazzini nutrono la loro quieta estate da osservatori imparziali e quasi astratti delle sofferenze dei loro genitori, represse sotto la maschera della serenità. Le scene si susseguono scollate, sipari di un vivere comune (feste di compleanno, la piscina gonfiabile in giardino, i morbillo party), squarci di violenza domestica (il padre picchia il figlio che dubita della sua felicità, la piscina gonfiabile squartata nottetempo, la figlia rasata perché ha i pidocchi). Il contrappunto è offerto dalla ragazza madre che gira gravida della sua indifferenza, dal professore che impartisce estive lezioni di strabismo esistenziale, dalle accensioni adulte di un’infanzia che con la sua indifferenza potrebbe far esplodere il mondo intero degli adulti…Col loro film i fratelli D’Innocenzo colpiscono sempre. E colpiscono basso, a più riprese e in più punti, il corpo di un racconto che sembra scaturire da un sentire positivamente condiviso e invece si riferisce direttamente, senza mezzi termini, a una insensibilità comunemente rimossa. Favolacce è un film che non lascia scampo perché non cerca scampo per la favola oscura che fa interpretare ai suoi protagonisti, cogliendoli in balia delle loro tragiche esistenze senza qualità, spingendoli in una scena che conosce la mancanza di un punto di fuga morale. È come se i D’Innocenzo prendessero la lezione del Mario Bava di Reazione a catena o di Cani arrabbiati e la adattassero a uno scenario antidrammatico, spinto in maniera indolore verso la tragedia. Anche per questo Favolacce è il punto d’arrivo e di partenza di un cinema (italiano) in cerca di una verità scomposta e, finalmente, antirealistica, lontana dai quartieri, dalle periferie, dalle città di mezzo e di sotto, dai psicologismi da manuale… Lontana da se stessa.

 

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