Le screpolature emotive di Sanctuary di Zachary Wigon

Un uomo in una stanza d’albergo ordina al telefono una cena. Una donna bussa alla porta: è incaricata dal consiglio di amministrazione dell’azienda che l’uomo sta per ereditare di tracciare un profilo psicologico che garantisca la sua affidabilità. Le domande però diventano presto disturbanti, morbose. Sembrano seguire un copione ben definito, volto a scardinare i ruoli e a ribaltare i rapporti di forza. Rebecca e Hal, infatti, non sono quello che sembrano: lei è una escort pagata per dominare, lui è un uomo che si appresta a diventare potente ma paga per essere umiliato. Il pregio migliore di Sanctuary (concorso Progressive Cinema), opera seconda del regista e critico cinematografico Zachary Wigon, consiste proprio nella capacità di suscitare dubbi e perplessità nello spettatore prima di rivelare i suoi colpi di scena e cambi di registro. Ambientando il suo film negli spazi – nemmeno troppo angusti – di una lussuosa suite di un hotel (e nel corridoio che conduce a un ascensore che si apre spesso senza mai essere usato), Wigon segue da vicino gli scossoni emotivi dei due protagonisti e del loro gioco di potere, basato su un fragile equilibrio che tende, continuamente, a capovolgersi. L’impostazione teatrale si scioglie in una tensione nervosa sempre carica, mai sottomessa a una morbosità di sguardo quanto a una concentrazione sulle screpolature emotive dei due protagonisti. La sceneggiatura di Micah Bloomberg suggerisce e poi scarta, ammicca e poi nega, accumula e poi spoglia.

 

 

Se alcune suggestioni pagano una certa ovvietà di ruoli, questi vengono però sostenuti da una scrittura capace di dettare sfumature, di lavorare per accumulo e poi puntare all’essenziale. Il testo è in fondo una variante della fluidità dei ruoli di potere, soprattutto sessuali. Il modello di riferimento potrebbe essere – e chissà se la formazione critica dell’autore c’entra qualcosa – più il sottile gioco al massacro di certi film di Joseph Losey che alle forzatamente politicizzate questioni dell’attualità contemporanea. E se Sanctuary forse non aggiunge niente di nuovo all’analisi dell’argomento, certo riesce ad adeguarlo coerentemente ai tempi che corrono, senza eccessive strizzate d’occhio né compiacimenti opportunistici. Le titubanze che emergono sono ben stemperate dalla devozione dimostrata dai due interpreti – la smagliante Margaret Qualley e il dolente Christopher Abbott – la cui chimica sostiene la tensione anche nei momenti più canonici. Nella mareggiata emotiva che sbatte Rebecca e Hal l’una contro l’altro, Wigon ridisegna compiti e finalità dei protagonisti, non schematizza né semplifica la portata emotiva e politica di uno scontro che è anche di classe: la dominatrice è una ragazza del popolo, abituata ad essere sola nel prendersi cura di se stessa; il masochista è un rampollo di una famiglia di esorbitante ricchezza, pronto a ereditare le fortune che gli spettano senza forse averne né voglia né capacità. E se i primi due atti del film seguono il filo conduttore della sopraffazione, della gestione del potere come atto di forza, la virata romantica dell’ultima parte fortifica invece di annacquare l’impatto della vicenda. Perché è forse nella capacità di ridefinirsi, a volte anche tradendo se stessi (e le aspettative, le ambizioni, le costrizioni che la vita ci impone) che è possibile rinascere fuori dalle convenzioni, siano esse sessuali, politiche o sociali. Riuscendo a essere, fino in fondo, quel che si è con una scelta che è, innanzitutto, liberatoria.