Lanciato alla Berlinale 2020 nella sezione Special Gala e immediatamente captato da Netflix per il mercato mondiale, Time to Hunt (Sa-nyang-eui-si-gan) di Yoon Sung-hyun è un heist thriller a sfondo distopico, costruito sulla scansione intrecciata di tensioni sociali, sogni adolescenziali di riscatto facile, azione ad alto ritmo e fughe senza tregua. Un bel concentrato di dinamiche di genere, rimestate da Yoon Sung-hyun in questa sua opera seconda, che giunge a nove anni di distanza dal successo internazionale del suo esordio, Bleak Night (Pasookkoon), del quale il regista ritrova qui, oltre al protagonista Lee Je-hoon, la focalizzazione sul legame che unisce tre giovani amici giunti al capolinea della loro adolescenza. Cogliendo lo spirito dei tempi di sommossa che si aggira tra Hong Kong e l’America black, Yoon Sung-hyun costruisce uno sfondo di instabilità sociale proiettato in un futuro prossimo, costretto tra orde di diseredati che occupano le periferie della città, militarizzazione delle strade e controllo criminale del sottobosco urbano. Ma l’intuizione vincente è quella di non dare rilievo prioritario a tutto ciò, tenendolo piuttosto come orditura sulla quale va poi a tessere quell’intreccio di coming of age, heist movie e thriller con caccia spietata, che costituisce la vera forza del film. Uscito di prigione per una rapina andata male, Jun-seok ritrova infatti i due amici coi quali è cresciuto sognando di fuggire verso un mondo migliore, magari quella Taiwan dalla quale i suoi genitori erano arrivati in Corea, da lui idealizzata come un paradiso di sole, fortuna e serenità. Deciso a trovare i soldi per realizzare il loro sogno, Jun-seok decide di mettere a segno un’altra rapina, puntando sul caveau di un casinò clandestino gestito dalla mala. Ovviamente il colpo, messo a punto in ogni dettaglio, muove i meccanismi della prima parte del film, salvo lasciare poi il posto alla caccia senza tregua che si innesca quando sulle loro tracce si mette un inesorabile poliziotto colluso con la mala, spietato e determinato quanto un terminator.
Come d’abitudine nel cinema sudcoreano d’azione, l’innesto di elementi anche discordi crea quell’effetto di accumulo che tiene alta la tensione e dissemina di molteplici linee drammaturgiche film altrimenti destinati a riciclare schemi consolidati. Yoon Sung-hyun, che ha studiato cinema e realizza i suoi film in Corea, ma è nato a Oakland, in California, fa sentire risonanze scorsesiane nella definizione dei legami tra i protagonisti e nella ritrattistica degli scenari malavitosi, cogliendo sfumature malinconiche ma anche tensioni ironiche che puntellano il gioco geometrico della posa in opera della rapina. In più la campitura distopica garantisce un raffronto con la tensione sociale che offre elementi dinamici sia all’azione che alla definizione dei personaggi, lasciando poi alla figura del poliziotto il compito di spingere il film nella dimensione della fuga e dell’azione estrema. Il film articola belle geometrie visive grazie anche alla fotografia dell’esordiente Won-Geun Lim. Spiace quasi che, dopo il passaggio berlinese, il film sia stato limitato al solo canale Netflix, cosa che tra l’altro ha causato non pochi problemi tra la produzione e il sales agent, che a Berlino aveva già iniziato a vendere il film in non pochi paesi.
Time to Hunt su Netflix
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