Su MUBI Gli anni amari di Andrea Adriatico: Mario Mieli fra trip lisergico, pathos e pulsione politica

Fa male pensare che, a mezzo secolo dal decennio libertario e variopinto dei Settanta del Novecento, la cultura popolare di un’Italietta sempre più fascistoide e intransigente nel difendere il Non-Pensiero Unico dell’Ignoranza, abbia integrato e neutralizzato nel suo circo mediatico sempre più tetro e sfibrato personaggi allora potenzialmente scomodi come Renato Zero o Cristiano Malgioglio, riscattati per eterosessualità dichiarata il primo e per opinionismo qualunquista il secondo, ma ancora non sia riuscita a fare i conti con una figura immensamente più complessa, ricca e fertile come quella di Mario Mieli, che si è congedato dalla terra e dal rischio di ogni normalizzazione circense nell’anno del (lui avrebbe detto delle) Signore 1983. Meno di dieci anni prima Pier Paolo Pasolini veniva trucidato: l’omicidio non ha ancora trovato i suoi mandanti. Meno di dieci anni dopo moriva di AIDS Pier Vittorio Tondelli: nelle sue schede biografiche la causa della morte viene ancora menzionata con imbarazzo. Insomma fa male la rimozione cui la memoria popolare sottopone i non conformi, non molto diversa da quella che in Germania ha coinvolto negli stessi anni l’immenso Rainer Werner Fassbinder. Fa male che ancora oggi l’Italietta che elegge a propri rappresentanti Capitani del Popolo che le ammanniscono le stesse banalità del Non-Pensiero che lei intorpidita custodisce in grembo, sbeffeggi o peggio ancora ignori quelli che il Pensiero hanno tentato di coltivarlo e stimolarlo a costo della vita. Quelli che un tempo si chiamavano Intellettuali, ovvero quelli che guardano dentro le cose, tentando di leggerle e capirle, alla ricerca di strade nuove e di nuove conoscenze. Di nuove forme e nuovi piaceri, al di là di ogni cornice ideologica o confessionale.

 

 

Fa male che l’eredità di Mieli, ovvero «l’esperienza psichica di un corpo o di un desiderio non conforme alla norma» che «cerca un linguaggio per dirsi, scava lo scibile per capirsi, foggia parole nuove per nominarsi» (T. de Lauretis), sia rimasta inassegnata e che nessun erede si sia ancora fatto a avanti a reclamarne i tesori e le insidie. Un’eredità, va detto, impervia e scivolosa più di ogni altra, fatta di parole puntute, intrise di soggettività ed egotismo, antidoto alla sterilità dello strutturalismo che Mieli si getta alle spalle, mix di filosofia, psicoanalisi, scienza, esoterismo, argot queer, derive camp, ironia da avanspettacolo, rabbia secolare, insomma impasto di ogni cosa umana il cui legante è il rifiuto di ogni censura del pensiero e di ogni cesura del linguaggio, fiume in piena di cortocircuiti e neologismi. Chiedere a una fiction, per il cinema e ancora meno per la tv, di dare voce a quell’eredità, a quel linguaggio che persegue lo stesso «perverso polimorfismo» incomponibile che Mieli attribuisce alla sessualità, significa chiedere a un maratoneta di scalare una montagna. L’affanno e la difficoltà di tenuta si sentono chiaramente proprio a causa del linguaggio nel film Gli anni amari di Andrea Adriatico, presentato in anteprima il 16 ottobre 2019 nella pre-apertura della Festa del Cinema di Roma, tenuto in ostaggio dalla pandemia per mesi e uscito il 2 luglio 2020 nelle sale italiane. Sarebbe interessante chiedere al regista, già autore di due documentari complessi e delicati come raramente se ne trovano (+ o – il sesso confuso. Racconti di mondi nell’era AIDS, 2010; Torri, checche e tortellini, 2015), perché abbia deciso di affidare questa storia alla finzione pura: la risposta spetta agli spettatori e gli auguriamo che sia quella che si merita Mieli.

 

 

La sceneggiatura così come ci viene proposta, scritta insieme a Grazia Verasani e Stefano Casi, arranca tra una battuta spiccia e una citazione colta mitragliate senza sosta, senza la raffinatezza metrica della screwball comedy né l’estemporaneità dell’attacco sorridente all’«idiotismo eterosessuale» presente qui e ora (si pensi ai tempi formidabili del vero Mieli che nel 1978 intervista truccato e travestito alcuni operai dell’Alfa Romeo inneggianti alla virilità, strappando a uno di loro la confessione che ogni uomo ha provato desideri omosessuali qualche volta nella vita).  Intensi gli attori, in particolare il protagonista Nicola di Benedetto, che sorregge Mieli sulle sue spalle senza venirne schiacciato, e Sandra Ceccarelli, iconica matrigna e mater dolorosa allo stesso tempo. Preciso il montaggio col poco materiale di repertorio di Chiara Marotta. Seducente la fotografia di Gianmarco Rossetti, che, insieme alle scene e ai costumi di Andrea Barberini e Giovanni Santecchia, crea un’atmosfera in cui il trip lisergico, il pathos familiare e sentimentale, la pulsione politica e la minaccia della schizofrenia si fanno “vedere” a braccetto lungo tutto il film, ricordandoci che la vicenda di Mieli si chiude così tragicamente presto proprio per la hybris dell’Intellettuale che ha evocato Pensieri contro «la separazione tra uomini, tra donne e tra uomini e donne» e contro lo «psiconazismo» (ce lo dice lui stesso nei suoi insuperati Elementi di critica omosessuale), pensieri di fusione panica dalla cui spaventosa incontrollabilità quell’io, il cui sarcasmo accentrante mascherava un’infinita fragilità, è stato schiacciato.