Green Book, le contraddizioni on the road dell’America razzista

Non sarebbe passato molto tempo prima dell’introduzione del Civil Rights Act, che finalmente, nel 1964, avrebbe posto fine alle discriminazioni di natura razziale. Ma due anni prima, il Negro Motorist Green Book era ancora indispensabile ai viaggiatori di colore degli Stati Uniti, che inquella guida trovavano gli alberghi, i ristoranti, i luoghi pubblici in cui avere accesso garantito, ed evitare in questo modo situazioni spiacevoli e rischiose per la propria incolumità. Pagine che fotografavano un paese ostaggio di un diffuso sentimento razzista, contraddittorio e ostile alla diversità. Un paese in cui un musicista afroamericano poteva esibirsi ed essere applaudito dai bianchi, ma poi invitato a non fare uso dei loro servizi domestici. In una scena di Green Book, Don Shirley, talentuoso pianista jazz, se ne sta lì sbigottito, a fissare il bagno in legno nel giardino di una residenza privata indicatogli dalla servitù, a pochi passi dalla sala in cui è appena stato osannato dalla stessa gente che gli nega l’uso della toilette per gentlemen. La dignità è un prezzo troppo grande che Don non intende pagare, nonostante abbia intrapreso la sua tournée ben consapevole degli episodi infelici  in cui sarebbe potuto incappare. Il ritratto lucido di questo clima di intolleranza e ipocrisia è il pregio più grande del film di Peter Farrelly (anche uno degli sceneggiatori, tra i quali c’è il figlio del vero Tony Lip), che accantonata la firma irriverente delle sue commedie (quasi sempre in coppia col fratello Bobby), dirige una storia di amicizia e rivendicazione sociale ispirata al vero incontro tra l’affermato pianista, nero e gay, Don Sherley e il buttafuori di origine italiana, Tony Vallelonga, detto Tony Lip, ingaggiato nel 1962 per fargli da autista durante un tour musicale negli stati più a Sud del Paese, dove lo spirito razzista si esprimeva nella forma più radicale e violenta.

 

Un on the road politico e ironico che mescola con ruffiana correctness commedia e dramma, temi duri e situazioni più leggere, costruito su conflitti e contrasti apparentemente inconciliabili, a partire proprio dalla coppia improbabile di protagonisti, poli distanti che la sceneggiatura inserisce in continui giochi di scontro e avvicinamento, per quanto prevedibili, ma resi efficaci e piacevoli dalle prove attoriali di Viggo Mortensen, nei panni dello scorsesiano Tony Lip (esilarante il suo “italiano” nella versione originale), e Mahershala Ali, in continua affermazione di sé, interprete del raffinato musicista prigioniero della sua difficoltà a sentirsi accolto dal mondo. Sfaccettato nella sua tracciabilità lineare ed educativa, lo spirito ecumenico della convivenza tra le diversità e dei diritti civili, che va incontro alle aspettative di ogni tipo di pubblico, fa di Green Book un film riuscito nel suo sapere bilanciare le esigenze narrative di prodotto popolare e quelle di un racconto impegnato nel ritrarre un’epoca conflittuale e intrisa di pregiudizio (in cui non si fatica a riconoscere molti tratti della contemporaneità), in cui però le distanze, geografiche e umane, possono convergere in un territori dove tutti sono liberi di essere se stessi.