È un film obliquo, Qui rido io. Un’opera che trova il suo vero respiro più nella sua declinazione trasversale che in quella diretta. D’accordo, è un film su Eduardo Scarpetta, sul suo astro nell’olimpo partenopeo e anche nazionale d’inizio Novecento. Ma è anche un film su molte altre cose, che hanno a che fare immancabilmente con tutto il cinema di Mario Martone e dunque con questioni che riguardano la nostra identità, i nostri vissuti storici, l’idea stessa di un’arte che infonde di sé il tessuto connettivo della vita degli individui e del paese tutto. In scena c’è lui, l’istrionico maestro Eduardo Scarpetta, colto al culmine del suo successo, giusto a un passo dall’inizio del declino: c’è lui con la sua compagnia teatrale, con la maschera di Felice Sciosciammocca che il suo maestro Antonio Petito gli ha consegnato a inizio carriera e che grazie a lui ha sostituito quella di Pulcinella nel cuore dei napoletani, c’è la sua multiforme famiglia composta da mogli, amanti ufficiali, figli legittimi e illegittimi… E dunque c’è Villa La Santarella, che contiene questo universo nel cuore del Vomero e ci sono anche, ovviamente, Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, i quali sono e resteranno figli illegittimi, che lo chiamano “zio” anche se, come tutti sanno, Scarpetta “gli è padre a loro”.
Su questo corpo scenico corale, ma ben compatto nella sua drammaturgia brulicante di vita e autenticità, s’innestano una serie di elementi che Mario Martone spinge in direzione di una lettura ben più ampia del film, che smuove in profondità argomenti a lui da sempre cari e poi muove dal suo perenne discorso su un teatro che integra la vita sino ad occuparla come una linfa da cui trae gioia e tormento. È a suo modo un teatro di guerra quello che Scarpetta porta sulla scena della sua Napoli, un dialogo diretto tra la maschera che incarna, le figure che allinea sul palco e la risposta del pubblico. L’idea stessa di insistere sul rapporto conflittuale di Scarpetta con la storica maschera pulcinelliana – che lui spinge nella dimensione del carattere, non più servo senza volto ma individuo con la sua misera dignità – diventa essenziale per capire la prospettiva in cui si pone Martone nel definire questa biografia declinante. Ma a ciò si aggiunge anche la frenesia vitalistica di Scarpetta, l’energia che transita tra le strade, la platea, il palcoscenico, il dietro le quinte, e defluisce come dimensione drammatica ulteriore, parallela, in quella sorta di bolla autorappresentativa che è Villa La Santarella, in cui si completa lo smarginamento tra vita di finzione e vita reale, il rispecchiamento tra i caratteri e le persone, le allitterazioni, le implicite raffigurazioni… Il testo chiave, ancor prima del Figlio di Iorio, che marcherà significativamente la caduta di Scarpetta, è Miseria e nobiltà su cui Martone insiste come cornice commediale che contiene il sordo dramma familiare che si consuma a La Santarella: il costume nobiliare assunto per ricchezza acquisita, il dialogo familiare tra la linea del sangue e quella dell’appartenenza, il destino stesso dei piccoli De Filippo di incarnare Peppiniello con la sua memorabile battuta “Vincenzo m’è padre a me” che per loro, costretti a chiamare “zio” quello che è il loro padre, doveva essere un dramma replicato di sere in sera nella commedia…
E poi c’è appunto la questione del Figlio di Iorio, scritto per Vincenzo, il primogenito tra i figli riconosciuti, mai veramente amato da Scarpetta, cosa che accadde, in perfetta simmetria, anche a Peppino, l’ultimogenito dei non riconosciuti… Lo sberleffo al Vate, poeta ufficiale della nuova Italia borghese e fascista, la parodia della pretesa dannunziana di farsi interprete dei sentimenti della povera gente, che non a caso determina la caduta di Scarpetta: un processo per plagio (il primo basato sul diritto d’autore in Italia), che oppose l’intellighenzia fascista fatta di giovani alla tradizione di cui Scarpetta era l’emblema. Si ritrovò solo, il commediografo, se non con l’appoggio autorevole di Benedetto Croce, che probabilmente gli valse l’assoluzione dei giudici. È su questo livello che Martone costruisce la struttura storicistica del suo film, ovvero l’idea di fare del teatro di Scarpetta il terreno identitario in cui si celebra l’idealità di un approccio dal basso alla verità della terra in cui si nasce e si vive, il bisogno di liberarla dai gioghi, dalle appartenente improprie: noi ridevamo… Lo scontro di Scarpetta con D’Annunzio appare quasi, in senso traslato, una questione insurrezionale, il diritto dello sberleffo, la volontà della parodia della Figlia di Iorio, tragedia che pretende di incarnare i drammi delle genti d’Abruzzo in un linguaggio aulico invece che in quello del popolo. È insomma evidente che per Martone il ritratto di Scarpetta insiste su una scena che segna il passaggio tra due fasi storiche ben precise del paese, e diventa l’emblema di un progressivo adattamento al mutare delle situazioni. L’opposizione tra il Vittoriale dannunziano, in cui Scarpetta si reca per chiedere il placet del Vate, e Villa La Santarella è evidente: antro popolato da figure oscure e traverse il primo, spazio condiviso e aperto la seconda. Per non dire della magnifica scena della festa di compleanno che segna uno dei punti più alti del film per sapienza registica e per complessità compositiva. E poi c’è l’attenzione prioritaria che Martone dedica ai tre fratelli De Filippo, ovvero al più autentico e concreto lascito di Scarpetta alla modernità a venire dell’Italia: Eduardo soprattutto, come interprete e drammaturgo, ma a loro modo anche Titina e Peppino sono quasi i protagonisti obliqui di questo film “genitivo”, i destinatari ultimi dell’attenzione martoniana, perché portatori di una continuità che si sgancia dal passato, di una problematicità che nasce proprio dall’appartenere senza essere riconosciuti. Tema che del resto nel cinema di Mario Martone è niente affatto trascurabile.