Horizon Capitolo 1: il western senza mediazioni di Kevin Costner

La questione della terra, dello spazio da rubare allo spazio, dell’orizzonte oltre il quale spingere lo sguardo, è da sempre centrale nel cinema di Kevin Costner. Lo è proprio nelle dimensioni del suo immaginario, sin dalla volumetria produttiva abnorme che adotta da sempre, la sua necessità di concepire opere che superano le misure hollywoodiane proprio in quegli ambiti che ai producers appaiono invalicabili: filmare sull’acqua (Waterworld) o rievocare la Frontiera è una questione di immaginario fondativo, di visione ab origine delle cose. La via del West, che tanta fortuna gli aveva garantito ai tempi di Balla coi lupi, si è poi rivelata dura e polverosa quando al romanticismo del tenente Dunbar in simbiosi coi lembi estremi del nuovo mondo si era sostituita in Open Range la geometria degli spazi recintati, la controepica del possesso terriero: più difficile spingere il pubblico americano a guardare in faccia il grande sogno della libertà finito in cattività nei recinti dei grandi possidenti… Figuriamoci se si tratta, come in Horizon, di metterlo davanti alla saga magniloquente (quattro parti per una decina di ore di durata complessiva) che avvita quel grande sogno sull’epica della sua fine…Non stupisce – ma non per questo spiace di meno – che Horizon non stia piacendo: molto più di quanto abbia fatto nelle sue precedenti incursioni nella Frontiera, qui Kevin Costner sceglie di parlare il linguaggio dei grandi classici dell’epica western.

 

 
E mentre ne usa le parole, i temi, le misure ideali, le mette alla prova di una sorta di “realismo” del genere che ne sporca la purezza ideale. Prende John Ford, Howard Hawks e tutti gli altri, citati ampiamente e ampiamente omaggiati, e ne azzera l’epicness, l’aura classicistica, per lasciare sul campo la verità di una rappresentazione priva di mediazioni ideali, la qualità umana originaria di un paese nato sulla sopraffazione, dall’occupazione, dalla violenza reciproca, dai compromessi politici, dall’inganno ordito sulla pelle dei pionieri… Riporta tutto a una dimensione griffithiana, nel senso che guarda alla nascita della nazione americana con la crudele purezza di un’epica non compromessa con gli idealismi, ma basata sul semplice ideale del dominio, sul faccia a faccia che nasce dal gomito a gomito… Non che la visione di Kevin Costner in Horizon manchi di idealità, ma di sicuro rinuncia a ogni idealismo che proviene dall’assunto dell’astrazione classicista e questo si traduce in un progetto che nell’ampiezza delle sue dimensioni si connota come un attraversamento disillusorio, antitetico rispetto alla mitopoiesi western da cui attinge la propria energia. L’impianto di Horizon rispetta insomma le dimensioni del dream project in cui Costner ha investito ben 38 milioni dei suoi dollari: il Capitolo 1 lanciato a Cannes e impantanato nella distribuzione di sala estiva pone le basi di una narrazione ampia, che evidentemente intende spingersi in una rappresentazione articolata delle dinamiche sociali su cui l’America si basa. Intanto rifugge la polarizzazione tra nativi e coloni, orchestrando uno sguardo a 360 gradi sulla complessità delle relazioni in atto sulla scena della Frontiera: l’incipit sull’agrimensore solitario con famiglia che, sotto lo sguardo dei nativi nascosti, misura i terreni su cui sorgerà la città promessa chiamata Horizon, sembra porre il campo/controcampo fondativo di Balla coi lupi, ma è destinato a tradire l’idealismo del confronto culturale che aveva salvato il tenente Dunbar.

 

 
L’agrimensore e soprattutto il suo bambino saranno i primi dei tanti corpi sacrificali di coloni su cui si ergerà la prepotenza del sogno della civiltà americana. In Horizon la Frontiera è territorio di contesa reale, non c’è idealismo di libertà, ma spazio da attraversare pericolosamente e da conquistare. Il ballo dei coloni che si traduce in carneficina è solo uno degli scenari aperti dal film: il forte delle giubbe blu ospita i sopravvissuti e mostra le differenze di posizione, la storia d’amore tra il tenente Gephart (Sam Worthington) e la vedova Kittredge (Sienna Miller), il confronto tra il colonnello Houghton (Danny Huston) e il tenente sull’approccio da adottare con gli indiani… Nel campo degli Apache si configura lo scontro tra il vecchio capo Tuayeseh (Gregory Cruz), che capisce l’inutilità della ribellione e la necessità del confronto, e il giovane e ribelle Pionsenay (Owen Crow Shoe), mentre sul versante opposto, violenza e sopraffazione strisciano tra l’ingenuità dei coloni. È in questo ambito che si muovo Hayes Ellison, il maturo horse trader interpretato da Kevin Costner che, per quanto cerchi di mantenere il profilo basso occupandosi dei propri affari, non riesce ad evitare di mettersi nei guai per una giovane prostituta. Il coming soon finale lancia un Capitolo 2 che al momento risulta rinviato (pare che lo si vedrà comunque a Venezia), mentre il Capitolo 1 sarà disponibile a breve in streaming VOD.