I Foo Fighters a pezzi: Studio 666, di BJ McDonnell

Curioso che il disclaimer non abbia furbescamente spacciato Studio 666 per il classico film “basato su fatti realmente accaduti”: avrebbe per certi versi potuto farlo, visto che l’idea nasce dalle esperienze raccolte dai Foo Fighters durante l’incisione del loro decimo album, Medicine at Midnight, registrato effettivamente nella casa in cui è ambientato il film. Una villa a Encino, in California, dove il gruppo si era riunito per sfruttare il peculiare suono degli ambienti, studiando con cura la collocazione degli strumenti per avvantaggiarsi della particolare energia del luogo. Il film, naturalmente, su questa base costruisce un racconto horror splatter particolarmente scatenato, che non sarà “realmente accaduto”, ma che pure rappresenta un naturalmente prolungamento del lavoro che Dave Grohl e soci da tempo portano avanti con i videoclip delle loro canzoni. Veri e propri mini film ad alta contaminazione cinematografica, a volte gratificati da camei illustri, in cui i membri della band si divertono a giocare con i loro ruoli e le rispettive iconografie. Basti pensare a Run che li vede clamorosamente invecchiati in un ospizio, ma non meno scatenati; oppure a Love Dies Young, con i volti sovrapposti ai corpi di atlete di nuoto sincronizzato. In pratica, è come se i Foo Fighters avessero capito che nell’epoca che ha azzerato ogni possibile forma di trasgressione del rock – non a caso motore della vicenda raccontata nel film è il classico discografico che li “spreme” per un nuovo album – quello che resta è lo spettacolo e l’autoironia.

 

 

Così, Studio 666 si presenta come una rielaborazione del lavoro di registrazione dell’album, sotto forma di viaggio nelle iconografie horror. Pieno di citazioni dei classici, il film concede ampio spazio alle interazioni del gruppo, che ha improvvisato su una serie di punti fissati nel canovaccio usato come sceneggiatura. Ne viene fuori una bizzarra miscela di horror e mockumentary, sempre sul filo del nonsense e dell’ironia demistificatoria, caratterizzato perciò da uno spirito divertito che diventa però anche un modo per esorcizzare il proprio ruolo di musicisti rock. Non a caso, la maledizione che si annida fra le quattro mura porterà molti membri della band a essere crudelmente trucidati e fatti a pezzi con lame e motoseghe assortite, dando forma a momenti divertenti, ma creando pure un’inquietante risonanza con il vero decesso del batterista Taylor Hawkins, scomparso per un infarto subito dopo l’uscita del film. Accostato ai lavori frutto della sinergia tra i Beatles e Richard Lester, Studio 666 si affida perciò alla regia di BJ McDonnell, già autore dello slasher Hatchet III e che aveva lavorato proprio ad alcuni dei videoclip sopracitati: una mano, la sua, capace di tenere insieme l’aspetto più truce garantito dalle morti sanguinose e dagli effetti digitali con cui vengono visualizzate le creature che infestano la Casa – il rimando a Sam Raimi non è casuale – e quello più divertito in cui i vari protagonisti mettono in campo le loro differenze e peculiarità.

 

 

Il risultato appare sincero e divertente, furbo quel tanto che basta da garantire l’uscita evento, con tanto di EP composto da Grohl e intestato alla finta band dei Dream Widow che nel prologo vediamo massacrata vent’anni prima mentre registrava in quella villa il proprio disco. Pur con tutti i crismi dell’opera contemporanea, Studio 666 rievoca così un certo sapore retro da connubi di vecchia data fra il rock e l’horror. Come quello tra Alice Cooper e la saga di Venerdì 13 o l’altro tra i Kiss e la Hanna-Barbera per il tv movie Kiss Meets the Phantom of the Park. Anche per questo l’uscita di Nexo Digital (nei cinema per una sola settimana) parla soprattutto a un pubblico nostalgico di una concezione più barocca, forse più ingenua ma ugualmente appassionante dell’horror. Il tutto sotto l’egida di un John Carpenter che concede un cameo di lusso nei panni del tecnico del suono, con la classica aria sorniona che ormai lo contraddistingue nei vari contesti in cui appare, consapevole di essere il testimonial vivente di una tradizione gloriosa.