I luoghi e la scomposizione delle relazioni in Ada di Kira Kovalenko

La regista russa Kira Kovalenko, qui alla sua seconda prova di regia dopo Sofichka del 2016, apprendiamo dalle cronache essere la compagna di Kantemir Balagov e non è per fare gossip, ma perché il regista russo è, a sua volta, l’autore di Tesnota (passato a Torino nel 2017). E qui si arriva allo svelamento di questa premessa: Ada deve molto, moltissimo, forse anche troppo al film citato e raccontando una storia molto simile ne diventa quasi un rifacimento ambientato nella lontana e sconosciuta Ossezia. Siamo infatti in questa regione divisa a metà tra la Russia e la Georgia, nella città mineraria di Mizur al nord del Paese. Ada vive con il fratello Dakko e il dispotico e autoritario padre che le impedisce di avere una vita normale, amici, piccoli divertimenti, le vieta di farsi allungare i capelli, obbligando la figlia a una clausura forzata che sembrerà allentarsi, o comunque trovare soluzione quando, da Rostov, dove è emigrato per cercare lavoro, torna il fratello maggiore Akim che per queste ragioni Ada vede come una possibilità di salvezza. Se si riesce a superare questo oggettivo ostacolo per una visione davvero sganciata da ogni riferimento e da ogni suggestione che il magnifico esordio di Bagalov suggerisce guardando Ada, ci sono spazi sufficienti per un giudizio sereno e per una laica attenzione al film dell’altrettanto giovane Kira Kovalenko. Ada è un film che, indubbiamente, fa riconoscere nel lavoro dell’autrice un promettente talento, che per trovare piena affermazione dovrebbe desiderare di volare con le proprie ali. Ma il suo modo di girare, di scavare i primi piani, di stringere lo sguardo sul dramma attraverso i volti dei suoi personaggi e di lavorare sulle ambientazioni naturali, aggiunge valore al film confermando le sue doti.

 

 

Detto questo Ada – il titolo originale è Aprire i pugni – è un film pienamente radicato proprio dentro quei luoghi nei quali si muovono i personaggi. Si tratta di panorami nei quali, a perdita d’occhio o nel loro più limitato perimetro, sembra comunque che si sprofondi sempre in un naturale spleen, una malinconia che colpisce i suoi abitanti, i più giovani. Mizur, con quella strada dove scorre veloce il traffico e quei panorami desertificati, è un luogo dal quale scappare per rifuggire l’angoscia in un progressivo inaridimento dei sentimenti. È in questa prospettiva che trova significato l’altalenante sentimento che Ada nutre nei confronti del padre malato ed è in questa stessa prospettiva che si aggrappa al desiderio di un amore qualunque sia. L’amicizia con Tamik diventa preziosa per Ada che pensa di vedere in quello sprovveduto e pavido giovane compagno l’occasione per scappare dal luogo e da quegli affetti familiari che la soggiogano. Ma Tamik non è capace di soddisfare i desideri della giovane Ada e soprattutto non li capisce e per questo nulla sa prometterle e nulla le offre. L’orizzonte sembra allargarsi quando si comprende che il film non è solo la storia della sfortunata protagonista, oggetto di amori male declinati, ma riguarda il presente e il futuro dei luoghi a rischio di desertificazione anche umana. Il film con il suo giallo desertico dominante che abbatte ogni cromatismo e con loro pure i loro significati, sa restituire anche nello smarrito sguardo della ragazza, la mancanza di ogni certezza sia per il presente e ancora meno per il futuro.

 

 

Certo non si tratta di temi nuovi, anzi il cinema dell’est sembra sottolineare con frequenza la cupa dissoluzione di reti relazionali, di ambienti e luoghi che sembrano collaborare a questo progressivo sgretolamento. Kira Kovalenko insiste su questo aspetto e sull’altro che guarda al dissolversi e al ricomporsi dei rapporti familiari. Come in molta cultura russa, oggi divisa tra quelle etnie o nazionalità che hanno dato luogo al disgregarsi dell’Unione Sovietica, il tema della famiglia e dei suoi legami diventa essenziale e centrale. Il film sa evidenziare, nelle triangolazioni tra i tre fratelli e tra questi e il padre, bisogni che sembra debbano restare insoddisfatti nella frantumazione di quelle relazioni e davvero Ada mette in evidenza queste relazioni sotterranee alle quali ci si dovrebbe affidare ciecamente. In un finale quasi parossistico, diviso tra una famiglia che si forma e un’altra che si spezza, il racconto sembra trovare nella fuga l’unica soluzione, in quel crescere del pathos tra immagini sgranate, traballanti e sovrapposte. Ada è un film che sa assorbire il senso profondo di quei luoghi, una instabilità del paesaggio che sembra condizionare anche i rapporti tra i personaggi e questo resta uno dei pregi principali di uno sguardo non consueto sulle cose e sulle persone.