Il buio della sala e del mondo. Dark Night

dark-night-movie-2016-posterSe accostiamo la prima immagine di Dark Night (il dettaglio di un occhio spalancato) alla sua ultima sequenza che ha per setting una sala cinematografica, in un ideale anello narrativo, diventa evidente come lo sguardo sia centrale dall’incipit all’epilogo, tema portante di un film che vuole essere testimone non tanto di una tragedia nel suo compiersi, quanto piuttosto di un processo di indagine e osservazione nella vita di una comunità, alla ricerca di ciò che innesca la violenza fredda e folle di una sparatoria. L’americano Tim Sutton, al suo terzo lungometraggio (a Venezia in Orizzonti) dopo gli apprezzati Pavilion e Memphis, si confronta con le stragi di massa compiute da ragazzi, tra i fenomeni più neri della società statunitense dove l’accesso alle armi da fuoco spiana la strada nel soddisfare rabbie e frustrazioni. Il riferimento è chiaramente alla sparatoria di Aurora, in Colorado, dove nel 2012 un 24enne aprì il fuoco in un cinema durante la prima di The Dark Knight Rises di Nolan (non è per nulla casuale l’assonanza con Dark Night, che nel film di Sutton è anche il titolo della pellicola proiettata in sala, rimando palesemente metalinguistico). Non c’è messa in scena della follia, anzi il regista punta alla sua negazione narrativa evitando di mostrarci il dramma nel suo svolgersi, seguendo invece nell’arco di una giornata la quotidianità della cittadina di provincia dove avvengono i fatti, e in particolare le vite di alcune persone che si ritroveranno nel luogo della sparatoria, tra cui lo stesso attentatore.

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Debitore del Gus Van Sant di Elephant, non tanto nei suoi labirintici inseguimenti di destrutturazione del tempo quanto nella percezione di un pericolo incombente, Sutton ci porta con minimalismo e delicatezza al fianco dei suoi personaggi, tutti a loro modo vittime di una forma di alienazione: dalla realtà virtuale dei videogame, al mondo visto attraverso le immagini di Google Maps; dall’ossessione per l’aspetto fisico o le armi, fino ai sentimenti rancorosi. I protagonisti si sottraggono non solo dalla realtà che li circonda, ma persino dalla macchina da presa, dando in più occasioni le spalle all’inquadratura. La violenza si manifesta come il prodotto della stessa società e Sutton riesce in questo a ricreare un clima di sospensione e attesa, dove anche i luoghi, ripresi con insistenza e toni cupi, inclusi i cieli plumbei, sembrano annunciare la tragedia imminente come fossero segni premonitori, spettatori di un mondo contaminato. Meno riuscito invece lo scandaglio delle vite private dei personaggi, che nella descrizione delle ossessioni personali resta in superficie senza mai veramente addentrarsi in angosce e paure. Il cinema, oltre che strumento di narrazione, diventa esso stesso luogo della tragedia, in un cortocircuito emozionale dove realtà e finzione si sovrappongono, cogliendo i segnali pessimistici della società che non sembra più capace di distinguere le cose.