Il cliente: essere un uomo. Analisi indiziaria di un terremoto interiore

L’ultimo film di Asghar Farhadi, dopo il capolavoro Una separazione, portava con sé aspettative altissime, e dunque notevoli possibilità di delusione. Ma, al netto del rischio insito in ogni opera tanto attesa che segua una prova folgorante, il nuovo lungometraggio del regista iraniano si rivela comunque un film potente, fin dall’incipit tellurico (la terra trema: un risveglio in cui le fondamenta sono letteralmente smottate), ma soprattutto attraverso il climax montante che, nell’ultima tesissima parte del film, ci conduce a un confronto serrato con lo sguardo del protagonista, adottando da vicinissimo e per quasi tutto il tempo della pellicola il suo punto di vista, e facendoci entrare empaticamente nelle sue lacerazioni e dubbi, rabbie e dilemmi, nel suo terremoto interiore. Un dissesto dell’anima che, a partire da quel vetro che emblematicamente s’incrina nella prima scena, lo porta negli abissi del sé e al centro segreto e oscuro della sua relazione e della sua identità: di marito, ma forse anche di figlio e di padre, anche se non ci sono, o significativamente proprio perché non ci sono figli e padri di quest’uomo gettato in questa sorta di orrido interiore, o meglio di fronte all’abisso di uno specchio, forse a domandarsi, di fronte a se stesso, che cosa significhi davvero essere uomo.

Apparentemente Emad (un nome persiano che significa non a caso “fiducia, confidenza”, ma, con leggero slittamento/smottamento, Imad in arabo vuol dire “supporto, pilastro” e Adam, di origine ebraica, è l’uomo “nato dalla terra” o “fatto di terra”, quasi a racchiudere un’area semantica relativa alla solidità e a ciò che permette di stare in piedi) conduce una vita solida e forte: è sposato felicemente, insegna ascoltato e rispettato dai suoi allievi, professore moderno e autorevole insieme, recita professionalmente (insieme alla moglie sta mettendo in scena, nella parte del commesso protagonista, Arthur Miller), è circondato da amici e da una rete sociale pronti ad aiutarlo e sostenerlo nel momento del bisogno. E quando è costretto ad abbandonare il palazzo dove vive per una minaccia improvvisa di crollo, ottiene facilmente dal collega teatrante anziano, amico e protettivo, anagraficamente e non soltanto paterno, una soluzione di fortuna più che dignitosa dove traslocare momentaneamente. Unico problema: l’ingombrante lascito transitorio della precedente inquilina del compagno di scena che, contrariamente a quanto promesso, adducendo varie scuse, non sgombera l’appartamento, lasciando tutte le sue cose fra quelle mura e obbligando i nuovi inquilini ad accatastare e accantonare questo fardello non richiesto e non preventivato ai margini della nuova dimora. A questa eredità provvisoria e non voluta, a questo carico materiale inatteso e molesto, si somma presto un lascito più subdolo e nascosto, di cui quella cianfrusaglia di indizi appare più che altro un simbolo fastidioso e invadente: quella donna, avendo vissuto fra quelle pareti una vita, così pare, un po’ dissoluta – semplicemente libera, un po’ leggera o spregiudicata è difficile dirlo – espone la coppia di sposi a un pericolo che non potevano immaginare: una sera Rana (nome arabo per “bella, accattivante”), la moglie di Emad, in attesa del marito, apre al citofono pensando che si tratti del compagno, e torna in bagno per farsi la doccia, ma lì si trova – senza alcun preavviso – minacciata nel suo spazio d’intimità da quello che probabilmente era un cliente (di cui il titolo del film) dell’inquilina precedente. Non sapremo mai che cosa avviene esattamente in quella stanza e in quel frangente, cuore degli omissis di cui il regista dissemina il suo film con grande maestria. In apparenza si tratta di una colluttazione in cui la donna ne esce svenuta e con una ferita alla testa non banale ma neppure troppo grave, eppure un trauma più profondo e oscuro le lascia segnata nel profondo l’anima. L’autore dell’intrusione, pare non visto in volto dalla vittima nella frenesia della colluttazione in cui la donna ferita cade svenuta, e sfuggito quasi completamente ai vicini testimoni che, allarmati dal trambusto, intravedono soltanto un uomo in fuga, con un piede ferito, volatilizzarsi nel nulla. Rimangono copiose tracce di sangue in bagno, un mazzo di chiavi e del denaro lasciati nella fretta dall’aggressore, che però nulla ha rubato, e – scoperto in un secondo tempo, a partire dalle chiavi abbandonate – un camioncino da lavoro, indizio voluminoso, sporco e opaco, spostato subito dal marito in garage, di un’effrazione tanto modesta nei danni materiali, al punto che la donna pare indirizzata a non sporgere denuncia, quanto perniciosa nella violazione interiore che sembra aver apportato: Rana, sconvolta da questo episodio, prova un terrore quasi fisico per il bagno e chiede, con spinte ambivalenti, a tratti isteriche, al marito di starle vicino e di lasciarla in pace, di proteggerla e di non toccarla, di rassicurarla ma non chiederle, di minimizzare e insieme di risolvere.

Lo spazio famigliare e domestico ne risulta come macchiato e contaminato, e quando la donna, ancora traumatizzata, si porta a casa il nipote per non star da sola e il ragazzino le chiede ingenuamente e prevedibilmente di rimanere solo bagno, chiudendo la porta, quel luogo riverbera ancora di tutta la paura e la vergogna e la vulnerabilità di cui si è caricato. Del resto la cena che segue, col marito tornato a casa e il bimbo (nel quadretto suggerito di una famiglia possibile e una pace plausibile), viene improvvisamente boicottata e di fatto sospesa dall’improvvisa consapevolezza di Emad che le pietanze che stanno gustando sono state acquistate dalla donna, senza saperlo, con parte di quel denaro probabilmente destinato a pagare le prestazioni potenziali dell’ex inquilina. Quelle banconote, corpo del reato e spettro del disonore, occultate dal marito in un cassetto e ulteriore tassello del non detto che scava una separazione fra l’uomo e la donna, assumono un valore nefasto e avvelenano la cena come fosse un tradimento. Come se anche la presenza di questo bimbo innocente, invece che rassicurare e lenire, fosse lì come memento di un’assenza (quella di un figlio?) che abita quella casa. Arrovellandosi su cosa può e deve fare, il marito, esasperato dallo spazio oscuro che questa intrusione pare aver creato o rivelato fra quelle mura (e in questa coppia), volendo rispettare il trauma della moglie ma non comprendendo a pieno i contorni esatti dell’accaduto e ciò che realmente è avvenuto in quella stanza e sta avvenendo nelle segrete stanze della consorte, si getta in un’indagine ossessiva ed extragiudiziaria per capire, quasi in un viaggio maniacale e paranoico, fomentato dall’atteggiamento irrisolto della consorte, chi fosse veramente la persona che abitava quello spazio provvisorio, quali compagnie frequentasse (rinviene tracce, nella segreteria telefonica della donna, di una relazione col padrone di casa e teatrante amico che sembra andare decisamente oltre a quella fra locatore e affittuaria), e a chi appartenga quel camion vuoto, sporco e ingombrante, che, custodito con disagio nei sotterranei, da un giorno all’altro, quando la moglie stufa di spostarlo a beneficio della circolazione del garage condominiale lo parcheggia una volta all’aperto, scompare anch’esso senza lasciare tracce.

L’inchiesta privata conduce l’uomo, che risale al proprietario del mezzo, a una panetteria, dove crede di capire che il padrone del mezzo sia un giovane che lavora nel negozio. Lo segue, e decide, presentandosi come un estraneo che ha semplicemente adocchiato il suo furgoncino, di chiedere all’uomo di raggiungerlo nella vecchia dimora pericolante, adducendo la necessità di un camion per un trasloco delicato, e immaginando di tendere così una trappola all’autore dell’effrazione. Quando Emad, solo in attesa nella prima casa ora evacuata per pericolo crolli, spalanca l’uscio, si trova però con sorpresa davanti un uomo anziano, mandato per il compito richiesto in sostituzione del giovane panettiere. Si tratta, scopre a breve, del futuro suocero dell’indiziato, del padre della promessa sposa di colui che aveva convocato, e in qualche modo già condannato. Il protagonista decide allora di raccontare al vecchio i suoi sospetti. Ma interrogando l’uomo, reticente e sviante sull’accaduto, cauto e scagionante sulle responsabilità futuro genero, si rende conto di trovarsi di fronte all’autore dell’effrazione e, costringendo l’anziano, con tono perentorio e quasi umiliante, a levarsi scarpe e calze, ha la conferma definitiva, nel piede ancora fasciato, delle sue peggiori congetture, trovandosi così di fronte al “carnefice”, a ruoli invertiti ora nelle sue mani, e deciso a disonorarlo davanti ai suoi cari: moglie, figlia e genero. Rinchiuso a chiave l’uomo, che ora invoca clemenza adducendo una salute precaria e chiede perdono per aver ceduto alla debolezza del desiderio, in un piccolo stanzino, l’attore torna a teatro per la replica di Morte di un commesso viaggiatore, e il regista ce lo mostra significativamente in scena dentro una bara, cadavere sul palco, nella parte del morto, specularmente a come ha lasciato il vecchio sotto minaccia, prigioniero ansimante nello sgabuzzino angusto di una casa vuota, e a se stesso, in un momento di trapasso nel quale è risucchiato nel vortice evidente di una morte simbolica: la tentazione di compiere il passo fatale che porta dalla parte del torto, sul terreno infido e irreversibile della vendetta. Questo parallelo suggella soltanto un continuo dialogare fra la vita (la vicenda narrata, anch’essa d’impianto e struttura teatrali) e il testo del capolavoro milleriano, un insieme di rimandi che punteggiano l’intera pellicola costruendo esplicite specularità (l’amante occasionale del commesso viaggiatore come donna di facili costumi che minaccia la patina esteriore e il nucleo profondo della famiglia), facendo emergere momenti di verità attraverso la confusione di scena e dietro le quinte (la rabbia verso il capo comico, padre/padrone di casa, sfogata sul palco attraverso una recitazione fuori copione e sopra le righe), portando a esplosioni rivelatrici della tensione che cova inconsciamente (l’alunno che fotografa il professore addormentatosi durante la proiezione del film tratto da Miller viene minacciato da Emad, con una pedagogia dell’occhio per occhio, di far vedere le foto sconce che tiene sull’apparecchio a suo padre, che però – interviene un compagno in difesa rendendo palese l’eccesso del prof – risulta, amara verità, essere morto). Ma l’intero parallelismo fra la pièce teatrale e questa storia meriterebbe un’analisi a parte, per la ricchezza di spunti mai didascalici, automatici o banali.

Il redde rationem avviene infine nella casa deserta e pericolante che incornicia la vicenda, con i famigliari del vecchio reo confesso (anche se non si capisce mai veramente bene a quale livello e di quale delitto) convocati con una scusa, e Rana che, portata sulla scena della resa dei conti, chiede al marito di non agire la rabbia della vendetta di fronte all’umanità disarmata e impotente del “cliente”, minacciando una rottura insanabile della coppia. L’uomo allora, divorato dal risentimento ma bloccato dall’ingiunzione della compagna a non farsi carnefice, decide di non smascherare l’anziano accusato di fronte ai suoi cari, e si contenta di restituirgli con disprezzo i soldi che ha dimenticato sul luogo del delitto e di umiliarlo ulteriormente con uno schiaffo di scherno, ma il tutto dietro a una porta chiusa. Liberato il vecchio, ecco che – colpo di scena – questo, sconvolto dalla tensione della situazione, sta male per davvero, e il promesso genero lo prende allora in spalla per portarlo in strada verso i soccorsi, giù dalle scale, come all’inizio del film Amed si fece carico, non a caso, di un uomo incapace di fuggire dalla casa che minacciava di venir giù. Un parallelismo che dà da pensare e non sembra affatto casuale, un gesto che ricorda, neanche troppo in filigrana, Enea che porta in spalle il padre Anchise, carico simbolico con riverberi mitologici, ennesimo fardello di questo film, ancora una volta evocativo di una figliolanza irrisolta e forse di una paternità mancata, che rappresentano alcuni dei fantasmi non detti che attraversano il nucleo oscuro della coppia protagonista, dei limiti e dei nodi mai enunciati ma continuamente suggeriti di quest’uomo, che, attraverso questo trauma, vengono a galla, ben oltre i confini dell’accaduto in sé. E sui volti di questa coppia, mentre ancora sconvolti, catatonici e irrisolti, vengono struccati nell’ultima scena, nei camerini del teatro di fronte allo specchio, si mostrano i segni indelebili e rivelatori di un invecchiamento precipitoso e precipitato (l’uomo colto da malore è poi morto? Anche questo non ci è dato sapere). Quasi che il vero soggetto di questo film, capace di conservare la forza penetrante dell’enigma, fosse il trapasso di una linea d’ombra, condensato in questa strano incidente e raccontato attraverso questo trauma che conserva il suo segreto, la storia di un confronto irrituale e irreversibile con l’età adulta, un momento di verità in cui tutto sembra franare e i propri fantasmi di provenienza e di discendenza, i vincoli del padre e della legge del passato da un lato e le possibilità di procreazione o le tentazioni di (auto)distruzione che il futuro dischiude dall’altro, entrano in cortocircuito, e ciò che è fuori campo fa irruzione. E sul bilico oscuro che si produce fra la spada e la compassione, ciò che ci ha generato e quello che siamo in grado generare, la legge e il perdono, rimane fisso lo sguardo di Amed, che ci interroga a fondo, e per molto tempo dopo che il film è terminato, su che cosa voglia dire essere un uomo.