Il giustiziere contro il sistema: The Beekeeper, di David Ayer

Un certo debole per le figure non allineate a David Ayer non è mai mancato, ancor più se queste flirtano con i meccanismi di un sistema militare o governativo da cui sono di volta in volta escluse: siano i soldati di Fury che si ritrovano isolati nel territorio nemico o i criminali di Suicide Squad usati come carne da macello per missioni mortali, al regista americano sembrano interessare quegli elementi di apparato che però, più che seguire gli ordini, devono trovare nella propria personalissima etica la motivazione per andare fino in fondo. Nel caso di The Beekeeper la scelta è evidente fin dalla metafora su cui si basa l’intera storia: un’organizzazione di giustizieri che, come le api nella natura, provvedono affinché l’equilibrio del mondo (cioè degli Stati Uniti) sia preservato, difendendolo dai calabroni, fino ai vertici della catena se necessario. Da questa misteriosa organizzazione Adam Clay è ormai fuori, ma quando la donna che lo ha aiutato a rifarsi una vita viene spinta al suicidio per una cyberfrode, si vede costretto a rientrare in azione scatenandosi contro i colpevoli, la cui ramificazione si spinge fino ai vertici del potere politico americano. I presupposti, insomma, poggiano sul filone giustizialista portato alla ribalta da Charles Bronson nei Settanta e che negli ultimi anni è stato riportato in auge dai vari Taken e John Wick, punta di un iceberg più elevato in cui possono rientrare anche alcuni precedenti dello sceneggiatore Kurt Wimmer, come Giustizia privata del 2009. L’acqua passata nel frattempo sotto i ponti ha imposto naturalmente una mitologia di fondo più ampia, che passa per l’innesto di organizzazioni misteriose e una lotta senza quartiere che ha gli spazi cittadini come enorme campo di battaglia.

 

 
Su questo scenario più pop, The Beekeeper sceglie di giocare un’imprevedibile carta realista, opponendo il giustiziere di turno non a casuali teppisti che hanno fatto irruzione in casa sua per eliminare parenti o animali domestici, ma a cyberterroristi, organizzati in un autentico conglomerato economico, che si muovono lungo la scala sociale derubando i privati per foraggiare la corruzione politica. Su questa traccia, figlia della disillusione tipica dei nostri tempi, Ayer costruisce dunque un film in antifrasi, dove un protagonista-fantasma, motivato da un delitto compiuto per via virtuale, inizia la sua crociata contro un’organizzazione onnipresente, senza utilizzare quasi mai armi che non siano la sua abilità fisica e la sua capacità tattica. Sebbene dichiaratamente ispirato dalla voglia di realizzare un prodotto escapista e meno crudo dei suoi precedenti, ugualmente The Beekeper ritrova un certo gusto per i chiaroscuri di matrice noir già caro al regista, che descrivono un mood teso e oppressivo, in cui dominano figure di grande fisicità, mentre il ritmo è definito dalla durezza dei corpi che cozzano tra loro. Risulta meritoria in questo, tanto la stolidità e la prontezza atletica di Jason Statham, quanto la fotografia del messicano Gabriel Beristáin, i cui trascorsi toccano le filmografie di Derek Jarman, David Mamet, Guillermo del Toro e che aveva già collaborato con Ayer nel 2008 con La notte non aspetta, tratto da Ellroy.

 

 
Il precario equilibrio fra gli estremi del realismo con critica sociale e dell’affresco pop con grandi scene d’azione lascia però galleggiare il progetto a metà strada fra il semplice prodotto di seconda fascia e il blockbuster di maggiori ambizioni. The Beeker insomma si fa innanzitutto il torto di non perseguire fino in fondo la deriva di un John Wick, che si immergeva totalmente nella sua implausibilità rendendola codice espressivo portato avanti con coerenza; allo stesso tempo, però, il film non osa nemmeno del tutto la carta del thriller politico, ma cerca invece di salvare quantomeno il salvabile in questo sistema sbugiardato nei suoi inganni. Le figure “sane” del sistema oscillano così fra i due detective dell’FBI che suonano come aggiunte naif in grado di apportare ben poco alla narrazione e la “Signora Presidente” al vertice della catena, campionessa di ingenuità e candore rispetto alle colpe della sua progenie, del tutto implausibile nel quadro generale descritto dal film. Ambizioni dunque non del tutto soddisfatte, pur nel superficiale divertimento che potrebbe comunque portare quest’unica ape all’eventuale trasformazione del singolo film in alveare/saga da più sequel, come la mitologia fin qui accennata furbescamente sembra già suggerire.