Il labirinto delle bellezze latenti in Dovlatov – i libri invisibili, di Aleksej German jr.

È la indiscutibile autorialità di Aleksej German jr a fare grande un film come Dovlatov – i libri invisibili. Non ci sono dubbi, non possono esserci dubbi su questa premessa. German ha in mente, da sempre, un cinema che sembra assorbire dentro di sé quel principio di realtà dal quale prende le mosse, per trasformarlo in materia da film con la sua macchina da presa che agisce come dispositivo di teletrasporto e trasformazione. Ciò accade sempre nei suoi film, da quando il suo lavoro, guardando dentro l’ampio spettro che comprende ciò che vediamo, ma soprattutto ciò che non vediamo nelle immagini, si è imposto all’attenzione del pubblico. Sconcerta sempre la sua concezione della spazialità che sa conferire alle immagini, facendoci riscoprire quanto il cinema possieda in termini di sopita potenzialità che sa diventare sguardo complesso e amplissimo. È una qualità che pochissimi autori posseggono, che non si può insegnare in nessuna scuola e non è che naturale, istintivo e inimitabile talento. Non si discosta dunque da queste coordinate Dovlatov, che in Italia diventa Dovlatov – i libri invisibili, film del 2018, penultimo del regista russo oggetto di grande interesse al Festival di Torino nello stesso anno e già premiato a Berlino nel 2018 con l’Orso d’argento per il migliore contributo artistico.

 

 

In realtà è forse proprio qui che German conferma le sue doti del suo regista nella infinita gamma di eleganti sfumature narrative e più esattamente cinematografiche, che il film conserva. Sergej Dovlatov è stato uno scrittore russo dall’anima indipendente, avverso al regime che lo escludeva dal consesso degli scrittori autorizzati a vedere le proprie opere pubblicate. Vide la sua fortuna artistica solo dopo la sua prematura scomparsa a soli 48 anni. La sua fu una vita difficile e travagliato il rapporto con la moglie. La lettura dei suoi libri, da qualche anno editi anche in Italia, rivela una sua personalità acuta e ironica che ha fatto di lui, ma solo oggi, uno degli autori più apprezzati del panorama letterario russo di questi ultimi decenni. German evita ogni forma consueta di film biografico e, con sapiente originalità, puntando sulla figura retorica della parte per il tutto, racconta solo cinque giorni della vita dello scrittore, dal 1° al 6 novembre del 1971. Un tempo ampio ed esemplare per catturare l’anima del suo personaggio in quella solitaria rassegnazione, per raccontare una Russia irreggimentata dentro un potere ingessato, di cui Breznev costituiva iconica rappresentazione. Di contro uno scenario di sottofondo intellettuale, quasi sussurrato, dentro il quale si agitava il dissenso, si preparava, forse, perfino, inconsapevolmente, il terreno di coltura di quella rivoluzione di idee che avrebbe mutato la visione del mondo. German racconta il serpeggiare di parole nelle stanze dove gli artisti senza futuro si incontrano, racconta la consapevolezza sgradevole dell’esclusione, racconta soprattutto, il vitale sgomento della sconfitta annegato dentro un’esistenza incerta, ricca di desiderio e stroncata dalle invisibili barriere del potere.

 

 

È una striscia ininterrotta questo lungometraggio di German, un continuum in cui si sfuma la metafora del tempo, quel tempo astratto eppure così misurabile che con la sua inavvertibile precisione segna l’esistenza dello scrittore e scandisce il ritmo quieto ed erosivo del film.  Dovlatov – i libri invisibili, resta una grande lezione di cinema, nel quale lo spettatore si trova al centro di una visione panottica che German crea attorno al suo protagonista. Una visione che sembra amplificarsi dal punto di fuga e allargarsi in quella lunga striscia di immagini, costruita in quella apparente, unica, lunga carrellata. che fluida e instancabile sembra raccontare non solo quella biografia, ma le molte altre vite incrociate dallo scrittore. Il resto è tutto in un fuori campo che irrompe solo a tratti nella scena. Un fuori campo che sottende il peso del regime, il tallone di ferro della dittatura. Un sistema repressivo che agisce implacabile nell’indifeso ambiente dei bohémien. È qui che il rivoltoso Dovlatov frequenta i poeti esclusi da ogni riconoscimento (Brodskij) o i pittori che non avrebbero mai visto Parigi e mai potuto esporre le proprie opere. È in questo ambiente che Dovlatov matura le sue decisioni che lo rendono ostile al regime, inflessibile nel non volersi piegare ad una scrittura che abbia empatia con il potere, rifiutando ogni compromesso e ogni asservimento.

 

 

German ci aveva già impressionato – Dovlatov – i libri invisibili ne dà conferma – con la sua precisa idea di cinema totale, assorbente, in Under eletric clouds o nel più lontano Garpastum, dove già questo occhio onnisciente manifestava la sua potenza visionaria, la sua ricerca di costruzione del racconto in una lingua solo apparentemente semplice, ma ricercata, elaborata dentro una concezione del cinema che comporta una straordinaria transizione dall’astrattismo delle teorie alla pragmatica funzione del racconto. Il film di German si fonda su queste forme mai rigide, attentamente ricostruttive di un’epoca, di quel tempo del dissenso colto nell’ininterrotto sussurrare dei personaggi, accompagnato dall’ironia sottile, anche sulla propria funzione di scrittore, per sopravvivere al profondo senso di impotente sconfitta nella quale più dura e silenziosamente rabbiosa si fa la critica al regime. Il resto: il potere, la repressione, la nomenclatura in quel fuori campo inavvertibile, ma perfino ingombrante, in quella percezione sensibile, ma quasi inattesa. Le immagini con i primissimi piani del volto aperto e franco di Milan Marić, che veste i panni dello scrittore russo, si riempiono di emozioni parallele rispetto alla storia di Sergeij Dovlatov. L’opera di German è densa, densissima di storia e di quel cinema che sembra senza fine, al quale il passato ci aveva abituato e fatichiamo – se non per brevi e finite illuminazioni – a ritrovare ancora oggi. Quel cinema che ci sa dare la vertigine e il piacere della visione dentro la quale perdersi come in uno sconosciuto labirinto pieno di bellezze invisibili.