Il road movie (auto)analitico di C’mon C’mon di Mike Mills

Che cosa succede se un adulto parla con un bambino come un bambino e quel bambino parla con quell’adulto come un adulto, scambiandosi le parti? Cosa succede se vengono sovvertiti gli stereotipi sui quali poggiano i muri spesso invalicabili tra infanzia ed età adulta, o meglio tra il modo di vedere e agire di un bambino e quello di un adulto? Che cosa succede se proviamo a ricostruire la transizione dimenticata che ha fatto diventare adulto un bambino? Che cosa succede se proviamo a chiederci quando e perché diventare adulti ha cominciato a implicare non solo il superamento, ma anche la rimozione di ciò che siamo stati da bambini? Cosa succede se proviamo a riallacciare una relazione di fisiologica consecuzione e conseguenza tra il pensiero magico e inarrestabile del bambino e quello razionale e autolimitante dell’adulto? Sono queste alcune tra le domande che Mike Mills si pone nel suo ultimo film, di cui ha curato sceneggiatura e regia, C’mon C’mon, facendo interagire un adulto un po’ infantile, Johnny, un giornalista radiofonico che viaggia per gli Stati Uniti intervistando bambini sulle loro vite e sui loro pensieri sul futuro, e un bambino precoce, Jesse, il figlio di 9 anni di Viv, la sorella con la quale Johnny non parla dalla morte della madre demente avvenuta più di un anno prima.

 

 

Mentre è a Detroit Johnny chiama Viv, che gli chiede se può andare a Los Angeles per badare a Jesse durante il weekend, mentre lei va a Oakland per prendersi cura del suo ex marito Paul, alle prese con un disturbo psichico invalidante. Dal momento in cui Johnny e Jesse si incontrano, inizia un viaggio sia fisico che interiore. Mentre Johnny porta il nipote con sé a New York e poi a New Orleans per registrare delle interviste, i due cominciano a conoscersi e, tra difficoltà prevedibili, complicità spontanee e qualche piccola diffidenza, a stringere un legame sempre più profondo. Mentre vengono macinati migliaia di chilometri sulla carta geografica degli Stati Uniti, tratteggiati con leggerezza coscienziosa dalla fotografia di Robby Ryan grazie a un luminosissimo bianco e nero, fiumi di parole avvolgono e svolgono il rapporto tra zio e nipote, creando una sorta di road movie (auto)analitico: Johnny e Jesse, interpretati da Joaquin Phoenix e dallo sbalorditivo Woody Norman in stato di grazia, non smettono mai di parlare, di provocarsi, di interrogarsi, di soccorrersi, aiutati a distanza dalla sorella/mamma Viv, una dolcissima Gaby Hoffmann, costruendo da zero una relazione autentica, basata sul dialogo paritario, sullo sforzo di capirsi, sulla capacità di mettersi in discussione e sfidarsi a vicenda senza volersi fare del male. Capita così che, mentre l’adulto aiuta il bambino ad affinare i suoi strumenti di comprensione della vita a venire, il bambino aiuta l’adulto a rivedere gli strumenti usati per archiviare la vita passata. Capita così che l’adulto e il bambino scoprano di avere le stesse fragilità e le stesse paure: Johnny sta ancora elaborando il lutto per la perdita della madre, mentre Jesse quello per l’assenza del padre, e in entrambi i casi la mancanza è resa più incomprensibile e dolorosa dal mistero della malattia mentale. Capita così che un film apparentemente facile si riveli una gemma rara di delicatezza e comprensione della vita.