Il sogno rivoluzionario di Fela. Il mio dio vivente di Daniele Vicari

La storia di un sogno cinematografico che non è mai divenuto film, dando comunque il la a un’esperienza di vita appagante. Al centro di Fela. Il mio dio vivente , c’è la curiosa figura di Michele Avantario, un artista visuale e operatore culturale di Trani, la cui ossessione, alla metà degli anni ‘80, divenne quella di realizzare un film su Fela Kuti. Che era un artista rivoluzionario, inventore e – insieme al suo batterista Tony Allen – massima icona dell’afrobeat (genere crossover, nato dalla contaminazione di tradizioni musicali africane, in particolare della cultura yoruba, con il jazz, il funky e il pop); ma pure attivista contro la corruzione e gli abusi dei governi militari nigeriani, nonché sostenitore del panafricanismo e capo spirituale della “libera repubblica di Kalakuta” (una comune creata a Lagos per il suo entourage, con tanto di ospedale e sale d’incisione): in quel momento, e fino alla morte (avvenuta nel 1997, a 58 anni), un personaggio di fama planetaria. Appassionato di musica e collezionista di dischi, Avantario aveva contribuito all’organizzazione di concerti italiani di Fela e ne era diventato amico personale, seguendolo poi nella capitale nigeriana con l’idea di fare un’opera di fiction su di lui (e con lui), rimanendo nel frattempo folgorato dall’ambiente con cui venne a contatto, un impasto unico di tradizione animista, cultura africana e modernità, filtrato attraverso la sensibilità di Kuti medesimo, che apparteneva alla componente colta della società centroafricana e aveva studiato in Inghilterra, laureandosi in musica al Trinity College di Londra.

 

 
È quindi dalle immagini girate dallo stesso Avantario, messo a disposizione dalla sua vedova, Renata Di Leone (che compare nel film, oltre a esserne la co-produttrice), che è partito il lavoro di ricostruzione di Daniele Vicari, in un primo momento solleticato dall’idea di girare un film su Fela Kuti. Ma Vicari, da autore versatile qual è (a suo agio tanto con il documentario quanto con la fiction, sperimentata pure nella forma di serie tv, con L’alligatore), si è reso conto da subito di non possedere gli strumenti per siffatta impresa, rimanendo ad ogni modo affascinato dalla vicenda esistenziale di Avantario – che di fatto è l’unico occidentale bianco ad essere stato ammesso alla corte esclusiva di Kuti -, tanto da farne il motore di un’opera che è una sorta di Giano Bifronte, legata a due poli.Il materiale di Avantario (video e fotografico) era però lacunoso, di per sé insufficiente a documentare l’avventura africana dello stesso; e allora Vicari consulta altre decine di archivi internazionali per disporre di immagini sufficienti al racconto indiretto dell’artista pugliese, a cui presta voce Claudio Santamaria e che procede lungo una linea imperfettamente cronologica di sobbalzi emozionali, dimostrandosi peraltro in grado di restituire l’atmosfera che egli respirò durante la permanenza in Nigeria. Lo spettatore vede (e vive) la singolare trasformazione di un occidentale che si lascia letteralmente invadere da un’altra cultura. E, indirettamente, impara a conoscere alcune sfumature dalla figura assai complessa e stratificata di Kuti, che dalle nostre parti viene troppo spesso ridotto ad aneddoto scoppiettante, ricordato soprattutto per la prima volta che venne a suonare in Italia, nel 1980: si presentò con le sue 27 mogli-cantanti (sposate per sfidare il regime che nel 1978 aveva invaso Kalakuta, violentando le coriste e scaraventando da una finestra sua madre, che sarebbe morta tempo dopo per le conseguenze dell’aggressione) e con 43 chili di marijuana, giustificati per l’“uso collettivo” del suo pittoresco entourage.

 

 
Ma Kuti era, ovviamente, molto più del protagonista di un bizzarro fatto di cronaca tricolore: era un leader carismatico e altamente seduttivo, oltre che un gigante della musica. Pure generoso e accogliente, ma al contempo umorale ed estremamente cauto nel tutelare la propria immagine e la propria visione: elementi questi, che spiegano forse più di ogni altro la mancata realizzazione del film. Avantario incominciò infatti a scriverne la sceneggiatura, raccolse la disponibilità dell’amico Bernardo Bertolucci a produrglielo e, man mano che passava il tempo, si abituò forse al compromesso secondo cui, per ragioni anagrafiche, lo avrebbe interpretato non più Fela, ma suo figlio. Ecco perché il sogno non si spezza nemmeno con la morte di Kuti, in buona parte avvolta nel mistero (forse a causa dell’Aids) e resta in auge finché vive Avantario. Nota a margine: è azzeccata la scelta di Vicari di affidare la colonna sonora al suo abituale collaboratore Theo Teardo, compositore assai lontano dalle sonorità afrobeat (si muove invece in territori dark ambient e post rock), per meglio giocare sui contrasti, sul (felice) contrappunto.