L’etica del conducente è un po’ come quella del samurai: si tratta di guardare sempre avanti, seguire la propria traiettoria avendo però ben a mente la scena complessiva, il bilanciamento tra assenza e presenza, azione e reazione, pensiero e parole… Se applicata all’archetipo newyorchese del taxi driver, non ha pari: stigmatizzato dalla triade Schrader/Scorsese/De Niro nella sua dicotomia attiva/speculativa, il tassista è diventato una sorta di passe-partout per accedere alle dinamiche cognitive dell’essere metropolitano, alla funzionalità dei character/passeggeri rispetto alla scena da cui provengono e verso cui sono diretti. Che ovviamente è una scena sociale, umana e psicologica allo stesso tempo, colta nella sospensione del transito che genera uno spazio neutro e indifferenziato e apre varchi nelle difese psicologiche. È un po’ tutto questo che Christy Hall mette in gioco in Una notte a New York, la sua quotata opera prima, che nasce da uno script pensato dall’autrice per l’off-off-Broadway e giunto sullo schermo grazie a Dakota Johnson (che lo ha prodotto, oltre a interpretarlo), pescato tra le prime tre della cosiddetta Black List hollywoodiana del 2017 delle più interessanti sceneggiature non realizzate. Titolo originale: Daddio, che nell’America degli anni ’50 si usava come oggi si usa dude per riferirsi a qualcuno in maniera generica, per scolpire una personalità che non richiederebbe particolare interesse.
Casualità relazionale perfettamente calzante al ruolo di un tassista che dal terminal arrivi del JFK porta a Hell’s Kitchen una ragazza di ritorno da due settimane trascorse in Oklahoma, a far visita alla sorellastra che le ha fatto da madre e da padre… Lei è Dakota Johnson, lui Sean Penn: gioco di caratteri a tutto schermo, occlusi nello spazio ristretto dell’abitacolo di un taxi. La notte fuori e le mille luci della città all’orizzonte, al di là dei finestrini occupati da un gioco fluido di fari, buio, lampeggianti del soccorso stradale nel tempo morto di un ingorgo. La parola è l’azione, naturalmente: film perfettamente dialogico, come ovvio vista la matrice teatrale del progetto. E la psicologia è la tessitura narrativa dei caratteri: potremmo quasi dire la psicanalisi, in realtà, vista la postura a latere che segna l’ora e quaranta di “seduta” offerta alla ragazza da Clark, ovvero Vinny o Mickey…, qualunque sia il vero nome di questo daddio che fa il tassista a New York da vent’anni e ha imparato a conoscere le persone che siedono sul sedile di dietro. Il film è tutto un gioco di relazione, perfettamente scritto e descritto, cesellato nella scomposizione dialogica delle psicologie che non lascia spazio al dubbio cognitivo dello spettatore, alla possibilità delle ipotesi che non siano prescritte in sceneggiatura: alla fine tutto sapremo di questa ragazza che cova la ferita di un padre mai avuto, ha una relazione con un uomo importante più grande di lei e trova nel tassista che la sta riportando a casa uno specchio in cui riflettere non solo se stessa, per conoscersi meglio, ma anche l’immagine del padre mai avuto, da imparare a accettare finalmente.
La messa in scena incrocia gli sguardi dei due protagonisti e i punti di vista delle macchine da presa che sfidano l’occlusione dello spazio: l’abitacolo è ovviamente perimetro identitario indifferenziato e intimo allo stesso tempo, la scena esterna è pura astrazione, dal momento che il film è girato in sequenza, ma on stage, ovvero non on the road, con pannelli HD a offrire lo scenario stradale al di là dei finestrini. La scena interna, dal canto suo, è puro dialogo, scambio di narrazioni intrecciate, ché se il soggetto da conoscere è lei, la passeggera, il narratore resta pur sempre lui, il conducente, il tassista sapiente, sagace, salace, sboccato ma profondamente umano. In filigrana resta la contrapposizione tra la verità della parola detta in quello spazio e in quel tempo ridotto e la vanità del chattare su WhatsApp della protagonista con il suo maturo amante, ma non è certo motivo centrale. In fin dei conti Una notte a New York si focalizza sul gioco di un rapporto a due che non lascia tempo al tempo più di quanto lasci senso al senso: l’occasionalità di quell’incontro è uguale e contraria alla profondità della relazione che si instaura tra i due. Non c’è prima e non ci sarà dopo, c’è solo lo scandaglio di due psicologie che si lasciano davanti alla scala di una vecchia casa di Hell’s Kitchen, il quartiere di Manhattan dove il Clark o Vinny o Mickey di Sean Penn (dolce e pungente come un Ernest Borgnine d’altri tempi…) è cresciuto e dove ora vive la ragazza Dakota Johnson.