Il teatro in carcere di Mimmo Sorrentino e Luca Mosso in Cattività di Bruno Oliviero

Mimmo Sorrentino, regista e drammaturgo che lavora da sempre nei luoghi del disagio sociale utilizzando gli strumenti dell’antropologia nei suoi spettacoli ha coinvolto attori, studenti, docenti, disabili, tossicodipendenti in recupero, alcolisti, anziani, extracomunitari, abitanti delle periferie, Rom, vigili del fuoco, giudici, magistrati, medici, infermieri, ambulanti, pendolari, malati terminali, malati di Alzheimer dando vita al “teatro partecipato” che si ispira all’“osservazione partecipante”, una tecnica di ricerca etnografica incentrata sulla prolungata permanenza e partecipazione alle attività del gruppo sociale studiato da parte del ricercatore (sul suo metodo nel 2009 ha scritto il libro Teatro partecipato, edito da Titivillus). Negli ultimi cinque anni ha fatto teatro partecipato con le detenute della Casa di reclusione di Vigevano (anche su questa esperienza ha pubblicato, nel 2018, il libro Teatro in alta sicurezza, sempre per Titivillus), lavorando con un gruppo di donne di mafia (Camorra, ‘Ndrangheta, Cosa Nostra). Ne sono scaturiti tre spettacoli teatrali: L’infanzia dell’alta sicurezza, in cui sette donne rievocano la loro infanzia (ogni attrice è chiamata a interpretare non i suoi ricordi, ma quelli di un’altra persona), Sangue sul racconto dei delitti di sangue a cui hanno assistito e Benedetta, incentrato sulla condizione femminile nei contesti di criminalità organizzata. 

 

 

Proprio l’esperienza in carcere è al centro di Cattività, il documentario diretto da Bruno Oliviero (che lo ha scritto con lo stesso Sorrentino e con Luca Mosso) che, dopo la presentazione durante la Movie Week di Milano, arriva in sala per poi approdare su Chili. Oltre alle riprese degli incontri in carcere («ogni giovedì nella palestra buia»), il film segue le detenute nelle rappresentazioni all’Università Statale, su invito di Nando Della Chiesa, nei teatri di Milano, Torino e Roma e negli incontri con studenti e pubblico. Un dietro le quinte che documenta il percorso che porta a una presa di coscienza da parte delle protagoniste e che afferma con forza il valore della rieducazione che ogni carcere dovrebbe perseguire come obiettivo. Come dice la frase di Nando Dalla Chiesa posta a epigrafe del film: «Quando le sette donne tornano insieme sul palco, felici dell’accoglienza, e le si vede una accanto all’altra nei loro abiti curati, l’applauso capisce di essere giusto, non blasfemo verso le vittime di quei clan che portano quei cognomi. Se stiamo scoprendo la legalità o lo spirito della legge, non saprei. Certo queste donne stanno cercando di scoprire se stesse. E con quelle storie alle spalle non è poco, proprio non è poco».

 

 

Il film si apre sull’esterno del carcere, una sorta di cattedrale nel deserto in cui a poco a poco penetriamo. L’avvicinamento è fondamentale in questo film, come spiega Mimmo Sorrentino parlando del suo metodo: «Il problema che mi pongo non è tanto in che cosa queste donne sono diverse da me, ma in che cosa sono simile a loro. Se si cerca la diversità non si va molto lontano, trovo invece straordinario il processo di trasformazione ed emancipazione che riguarda tutti». Volutamente il passato delle protagoniste è lasciato fuori scena, quello che conta è quello che succede davanti alla macchina da presa nel momento in cui si sta riprendendo perché, come osserva Bruno Oliviero, «era evidente che una volta che eravamo in quel luogo, dietro ci fossero dei reati forti. Il carcere sanziona dei fatti commessi da persone, l’obiettivo sarebbe la rieducazione, ma è impossibile perché non è il luogo giusto per rieducare nessuno, però evidentemente le persone hanno risorse più forti dentro». E continua: «Noto che i miei studenti che vogliono fare cinema non sanno ascoltare, tanto che quando filmano vedono soltanto e invece prima bisogna ascoltare e poi filmare, anche quando si tratta di lingue sconosciute. Il carcere ti accoglie con una serie di suoni che sono molto impressionanti, quando alle tue spalle si chiude un enorme cancello di ferro che cammina su ruote arrugginite, la prospettiva di quello che c’è davanti si fa complicata. Quando poi siamo arrivati a teatro, non si vedeva nulla, ma non ero preoccupato delle riprese che avremmo fatto, ero più triste per chi che stava in un posto senza luce. Dal primo momento ho pensato che dovevo imparare l’ascolto della realtà che Mimmo faceva, non un’interpretazione di essa». La presenza di una troupe non è ovviamente passata inosservata, come racconta Sorrentino: «Quando fai teatro partecipato qualsiasi elemento esterno entri nel contesto in cui stai lavorando, diventa, in senso basagliano, parte integrante del processo che stai mettendo in atto di trasformazione, di lavoro con le persone. Faccio un esempio: quando è arrivata la troupe di Bruno le detenute, che all’epoca erano quasi tutte partenopee, mi chiedono se da quel momento avremmo parlato in italiano, perché si preoccupavano che dopo avrebbero dovuto mettere i sottotitoli.». «Questa esperienza vi renderà più forti e avrete una consapevolezza maggiore che in un posto così orrendo qualcosa di bello può accadere» così una ex detenuta rievoca le parole di Mimmo Sorrentino a commento di uno spettacolo. E un’altra, vedendo per la prima volta il film in sala, afferma: «È stato un tuffo nei ricordi, sembra paradossale ma per me sono ricordi molto belli. Ho vissuto due anni in carcere, ma li ho vissuti appieno grazie a questa esperienza bellissima. Rivederla tutta insieme è stata un’emozione molto forte».

 

 

Foto di Amalia Violi