Il valore della disobbedienza: Pinocchio di Guillermo del Toro e Mark Gustafson

È un Pinocchio “liberato” quello che racconta Guillermo del Toro in questa trasposizione da lungo tempo inseguita: un burattino finalmente slegato dall’intento pedagogico e moralistico piccolo borghese della storia originale di Collodi e che può così affermare gioioso il proprio innato valore per la disobbedienza. Ciò che è cambiato è il mondo attorno a lui: un’Italia sempre articolata attorno a figure di potere (il podestà su tutte), ma stretta in particolar modo da un sistema di regole che trova la propria esaltazione nell’avvento del fascismo. Il complesso dei dettami cui uniformarsi, così, è tanto connaturato al destino degli uomini, quanto a quello delle marionette mosse dai fili dell’impresario locale (non più Mangiafuoco, ma il Conte Volpe). E persino il mondo fantastico da cui vengono gli spiriti miyazakiani che fanno le veci della Fata Turchina, costringono Pinocchio in una serie di ricorsi vita-morte-rinascita da cui non sembra esserci via d’uscita. Tutto è insomma ben organizzato e preordinato perché il meccanismo si nutra di sé in maniera autoreferenziale senza che nulla cambi.

 

 

Ma poi arriva Pinocchio, ligneo, spogliato di ogni orpello esteriore, niente vestito di carta o cappello di mollica di pane, disarticolato nel corpo che al suo primo apparire sembra quasi quello di un ragno, con il proverbiale naso che si allunga e diventa quasi un’abilità speciale più che una punizione: un’anomalia insomma, mossa unicamente dalla sua curiosità entusiasta per tutto quello che tocca e da un’energia anarcoide che non si riconosce nei moniti educativi paterni, pur non essendo in alcun modo apparentabile alla figura del discolo alla De Amicis (contemporaneo di Collodi). Questa tensione, presente sin dalle origini e che ha spesso affascinato i vari autori che si sono succeduti nelle trasposizioni, è stata comunque sempre ricondotta ai fini morali del racconto e alla trasformazione finale in bambino come premio per il buon comportamento. Del Toro, dal canto suo, rovescia l’assunto e tenta di far proprio il racconto trasportandolo nel suo universo figurativo: in questo senso, Pinocchio parafrasa in maniera abbastanza precisa i passaggi del Labirinto del fauno, attraverso il racconto di una giovane creatura innocente alle prese con figure straordinarie che metaforizzano il sistema di regole disumano su cui si fonda il mondo. Ma il tempo è passato con generosità da quel capolavoro e stavolta il giovane può imporre il proprio comportamento e irridere quel mondo che nell’osservanza dei precetti è tanto marionetta e tanto infantile quanto dovrebbe essere lui – si veda a tal proposito l’irresistibile comparsa di un Mussolini reso come un tipico moccioso abituato ad averla sempre vinta.

 

 

Se la morale è al rovescio e conferma l’amore del regista messicano per le creature outsider, non di meno fa l’inattualità di una stop-motion che si pone in precisa posizione dialettica con la cgi ormai universalmente utilizzata per animare il burattino: il suo Pinocchio ha una consistenza materica degna delle parabole di un Henry Selick, complice la mano di un Mark Gustafson che mette la propria perizia al servizio dell’operazione. Pinocchio in tal senso trasmette proprio il sapore dell’intaglio nel legno, del lavoro artigianale che esalta la possibilità dell’errore quale momento di esperienza su cui costruire nuove derivazioni della storia. Un vero e proprio What If che, nel mettere a frutto il tema sempiterno del rapporto padre-figlio (una costante nella filmografia dell’autore) lo rovescia nei termini, facendo di Geppetto la figura che deve imparare. L’uomo che ha costruito il burattino come surrogato del figlio scomparso, deve invece capire che si trova di fronte a una vita nuova, elaborare il lutto e superarlo, magari subendo lui anche le lezioncine morali del Grillo Parlante: in questo modo le varie esperienze traumatizzanti che da sempre caratterizzano il racconto collodiano – la fame, il freddo, lo sfruttamento del lavoro minorile, la punizione, l’essere inghiottiti dal pescecane, cui qui si aggiunge pure lo spettro della guerra – diventano tappe di un dialogo costante con la morte. Del Toro, da un lato lascia così emergere un precipitato tragico prettamente connaturato alla storia originale quale elaborazione collettiva dello spettro della morte, ma dall’altro versante lo demistifica, invitando ad accettare l’idea della scomparsa e della caducità quale elemento tipico della vita, cosa che accade come tutte. L’autentica disobbedienza del suo Pinocchio, in fondo, non sta nel non accettare le regole, ma nel ribadire come le stesse siano solo un paravento illusorio per proteggerci da una mortalità che caratterizza tutti. Quello che ci salverà realmente è la diversità che è ricchezza in quanto indice della nostra “sacra imperfezione”. Come quella di questo burattino, di legno come il più tradizionale crocifisso del paese, ma vivo in mezzo agli uomini.