Immersi nella magia e nel dolore: Augure – Ritorno alle origini, di Baloji

Inizia con un taglio di capelli, come nel suo corto più celebre Zombies, l’esordio nel lungometraggio di Baloji, rapper e artista visuale belga di origini congolesi. E di un ritorno a quella terra africana tratta proprio questo Augure (presagio), un film diviso in due parti, ciascuna contrassegnata dal viaggio che il protagonista Koffi compie per tornare dalla sua famiglia. Non è una missione semplice per lui che si è trasferito in Europa 15 anni prima, si è unito a una donna bianca con cui aspetta due gemelli e ha dunque in un certo qual modo tagliato i ponti con un passato che lo aveva contrassegnato con il nomignolo di “zabolo” (demonio). Una superstizione che tornerà prepotente al contatto con i parenti e che lo accomunerà ad altri tre personaggi della storia, tutti a vario titolo considerati streghe/stregoni: la sorella Tshala, rea di perseguire una mentalità troppo libera (è insieme a un uomo di 8 anni più giovane, in una relazione aperta di “poliamore”); il giovane Paco, che fa la vita da strada e vive nel rimpianto di aver perduto la sorella in ricordo della quale veste con un abito femminile rosa; e la madre degli stessi Koffi e Tshala, Mama Mujila, donna apparentemente dura come l’acciaio e refrattaria a ogni tenerezza, di cui si scopriranno segreti e motivazioni solo nella seconda parte. È evidente come l’immersione in una cultura che mescola cristianesimo e magia e produce, nel ritratto fornito dall’autore, un deflagrante scontro culturale con chi non si allinea a una logica patriarcale, diventa l’humus con cui il film persegue la sua idea estetica e politica.

 

 
Lo fa accettando il magico come forma espressiva, con lampi visionari che assecondano i contrasti, ma mantenendo una prospettiva lucida su un mondo di gente piegata dalla tradizione e costretta a fare i conti con l’infelicità che questo comporta. I dialoghi allargano il campo alla storia stessa del Congo, al rapporto con la dittatura e la dominazione coloniale belga, allo sfruttamento delle risorse con il lavoro nelle miniere compiuto visibilmente per l’arricchimento altrui, in un racconto che volutamente esplica la mancanza del padre – quello di Koffi, continuamente cercato dal protagonista e dai comprimari, ma senza esito – perché il mondo che mette in scena è privo di un riferimento saldo e perciò in balia degli eventi e del contesto. Baloji asseconda questo insieme di stimoli attraverso un passo multiplo come l’approccio che ogni personaggio ha verso lo stigma che lo marchia come anomalia sociale: quello più “passivo” di Koffi, abbandonato alla sofferenza per un bagaglio familiare e culturale che non riesce a contrastare. Quello più ribelle di Tshala, che pure non manca di generare contrasti con il compagno. E poi ancora il piglio più opportunista di Paco, che inscena spettacoli di magia in pubblico, come a voler sfruttare la nomea di stregone. Infine, quello introflesso e sofferto di Mama Mujila, personaggio di grande potere magnetico, grazie al carisma della straordinaria Yves-Marina Gnahoua. Lei in un certo senso incarna il sentire di un film che, all’impotenza delle parole preferisce l’intensità dello sguardo e del corpo, come la colonna sonora composta dallo stesso Baloji, che rinuncia ai testi – lui che da rapper su questi ha costruito molto del suo repertorio – in favore di una musicalità diffusa e di un’attenzione specifica ai suoni o all’assenza degli stessi, funzionali alla logica dei contrasti dell’intero lavoro.

 

 
Su tutto c’è un’idea di trasversalità culturale evidente nel gioco delle maschere, che uniscono tradizione africana e americana (parte dei riferimenti vengono dal carnevale di New Orleans), così come negli accostamenti fra le aree più degradate della città e i costumi eccentrici e dai colori sgargianti. Tutto sembra gridare un desiderio di liberazione che rompa gli schematismi dogmatici e metta in discussione un ritratto che, pur ottenendo la sua elaborazione nella parte finale, non appare comunque pacificato, ma sempre problematico. Non lo è sicuramente lo sguardo di Baloji, che dimostra di aver mantenuto nel lungo le caratteristiche che avevano contrassegnato i suoi corti e video, piegate stavolta a una narrazione che pur non essendo particolarmente strutturata (il film è diviso in capitoli, ma si concede il lusso delle divagazioni) riesce comunque a mantenere un respiro coerente fino alla fine. A coronare il tutto sono poi arrivati i riconoscimenti esteri, dalla selezione in Un certain Regard a Cannes, fino alle vittore come miglior film nella sezione Crazies del 41° Torino Film Festival e per la migliore regia a Sitges.