Una nuova perla della filmografia conosciuta di Ozu si è aggiunta alla lista delle sue opere restaurate e riconsegnate alla visione del pubblico. Speriamo presto possa arricchire anche quelle disponibili per il pubblico italiano, che nel 2015 ha visto in distribuzione sei film ad opera della Tucker Film. Un’operazione di crowdfunding che portò anche alla realizzazione di un cofanetto con libro allegatoche continua a essere una delle migliori proposte nel pigro mercato italiano (a Bologna anche per questo si consegnano, per ogni edizione de Il Cinema Ritrovato, i Dvd Awards ai migliori dvd e Blu-ray, con finalisti da tutto il mondo ma raramente made in italy). Inizio di primavera, del 1956, si inserirebbe bene in questo cofanetto, tra il secondo e il terzo titolo. È infatti successivo a Viaggio a Tokyo del 1953, il più noto di tutti, e precede solo di un altro Fiori di equinozio (1958) che apre il ciclo di film a colori, della seconda metà degli anni cinquanta. Film in gran parte incentrati, come Inizio di primavera, sulla vita degli “madogawa-zoku”, alla lettera “gli impiegati che siedono accanto alle finestre”. Un ciclo di opere che andrebbe considerato simili a “variazioni musicali”, operazione unica nella storia del cinema, così riuscita e monumentale da poter reggere questa similitudine solo con le Variazioni Goldberg di Bach. Di Yasujirö Ozu si conservano solo 37 film su 52, e quelli persi riguardano i primi dieci anni, dopo l’esordio del 1927. Inizio di primavera è il 47.mo ed è anche il penultimo film in bianco e nero del regista giapponese. Nonostante lo splendore dei suoi film a colori, di questo non se ne sente la mancanza. Insieme alle sfumature ricchissime di grigio degli abiti femminili, la serialità dei toni delle camicie bianche degli impiegati si accorda perfettamente con l’insolita coralità del soggetto del film. E non è l’unica novità di questo film poco conosciuto di Ozu, a cominciare dalla sua durata di oltre due ore e venti, molto oltre i canoni di Ozu.
Mancano innanzituttoi due attori chiave, Chishû Ryû, presente in quasi tutti i suoi film, e la diva del cinema giapponese Setsuko Hara, che è legata in modo particolare proprio a quest’ultima stagione di Ozu. Una coppia padre-figlia qui sostituita da due giovani sposi, Masako e Shoji. Lei è interpretata da Chikage Awashima, un’attrice alla terza e ultima prova con Ozu, che l’aveva resa celebre nel 1950 con Il tempo del raccolto del grano. Il giovane marito è invece un attore che lavora per la prima volta con Ozu, Ryô Ikebe, come anche la sua amante, Keiko Kishi. D’altro canto, insistendo su di loro, si farebbe torto ai tanti personaggi di contorno, in specie ai colleghi di lavoro di Shoji o ai suoi ex commilitoni di guerra, che andrebbero citati tutti quasi con lo stesso peso. Ozu, nelle sue memorie, dice di essere tornato con questo film ad occuparsi di impiegati. Naturale che lo faccia con uno sguardo ampio, ancora non focalizzato. Sui campi lunghi tra campagna e città troviamo file di camicie bianche, che rivediamo alle fermate del treno e poi per strada sotto i casermoni regolari degli uffici.
I temi delle “variazioni” sono sempre due: la famiglia, e la vita da impiegato. Sempre gli stessi sono gli scenari: la casa con il suo vicinato di prossimità, in vicoli stretti e quasi sempre con sfondi alti alle loro spalle; i treni, le sue stazioni, le strade per raggiungerle di primo mattino, per andare al lavoro; l’izakaya, il locale fatto di tanti ambienti separati dove riunirsi per bere sakè, fare convivio, e soprattutto cantare e concedersi qualche libertà in più; il bar dove bere alcolici al bancone e lasciarsi andare ad amare confessioni; l’ufficio, carico di schedari, i suoi corridoi, il suo divanetto dove avere brevi consulti con i colleghi di lavoro, le sue scrivanie vicino alle finestre. Il tutto sempre dentro una griglia rigorosamente ortogonale, nelle linee compositive quanto nei cambi di inquadratura. Tutto questo è rispettato. Mancano però i figli e solo a metà film sappiamo che ne hanno perso uno appena nato; ci sono pochi rapporti gerarchici tra gli impiegati, tutti giovani; si canta nei izakaya ma non quei canti tradizionali che ci riportano alla tradizione; la famiglia entra in crisi ancor prima di essersi formata e questa volta la sfida è nell’adulterio con una collega di lavoro. Molto più netta è l’indicazione di una condizione massificante e alienante della vita da impiegato. Una professione senza qualità, paradigmatica della condizione alienante della modernità. Chi non è impiegato li invidia per la certezza dello stipendio. Chi invece lo è invidia gli altri che per vivere devono saper fare qualcosa. Anche la guerra qui ritorna in modo più vivo, come“fango e merda”, con una memoria dell’esperienza cameratesca molto più intensa e violenta che in altri film. Coralità, giovinezza in fiore (da cui il titolo), ferite ancora aperte della guerra vissuta, una violenta rassegnazione ben racchiusa in una frase dei dialoghi: “siamo quello che siamo, non possiamo farci niente”. Invece qualcosa i due protagonisti lo fanno: lasciano la città, tagliano i ponti, sapendo che torneranno, ma dopo un isolamento in montagna. Lui, avendo accettato una trasferta vicino alla fabbrica di mattoni di cui è un colletto bianco, e che deturpa il paesaggio con i suoi fumi neri, privando il finale di qualsiasi finta elegia rupestre. Lei che lo raggiunge, dopo averlo abbandonato a causa del tradimento, per riscoprire il piacere di una convivialità familiare ormai perduta. Nella speranza che torni il desiderio e con esso la vita.