Condizioni di luce e fenomeno sonoro, brulicanti a intermittenza, in dimenticanza, provenienti dalle finestre, sono i due miracoli di Montanha del portoghese Joao Salaviza, in concorso nella Settimana della critica: dimensione di confusione, anzi di effusione tra una supposta ontologia – appunto germinante (in)solidamente (per luci e masse) fuori dalle finestre – e (in)solita realtà del film (nel senso di una costante reinvenzione cinematografica e reificazione del divenire sempre uguale delle cose). Referente e messa in scena ampliano i propri confini fino a entrare uno nell’altro, come nei film di un portoghese appartato, ma grande, Victor Goncalves, autore recentemente del bellissimo La vita invisivel, tutto intessuto di penombre e una luce smorta e misteriosa proveniente da fuori, che si posa sugli interni scandendo solitudini. Cosa che accade anche in Montanha a seguire, ma per lo più in macchina fissa, la desolazione di David, adolescente alle prese con la malattia del nonno; con una madre assente, assopita nella sua tristezza; Rafael, l’amico di scorribande; la scuola disertata; e soprattutto Paulinha, ripresa in primi piani in cui la penombra definisce i suoi lineamenti nel senso di un innamoramento dolente, per le cose, gli interni, per David, sperimentato nei primi baci: qualcosa di innocente eppure molto carnale (erotico, fremente), la laconica avventura dell’ignoto, del futuro incerto stampato sulle labbra di una ragazza, mentre al di là della stanza è tutto un sibilo di luce, di prati, di bambini che urlano la lontananza.
E la musica, e la danza, le prime passioni della ragazza, ripresa mentre balla una hard-techno chiaroscurale (una delle più belle sequenze di tutto il festival), completamente in balia dei bassi che si smorzano, si arrestano, ma solo perché il loro rilancio poi sia netto: ecco allora uno strumento fondamentale di questa indistinzione tra il referente (la realtà di un adolescente) e il suo racconto, il piano diegetico, visto che le uniche musiche presenti nel film sono quelle (diegetiche appunto) dei concerti rock e dei rave in cui sia David che Paulinha si perdono nei saliscendi dei bassi, gli svuotamenti di sostanza (in questo caso musicale) che evidenziano i successivi, repentini e attesi riempimenti e i rapimenti; una volontà di scomparire come esseri (crescenti), di fondersi all’astratto, in cui è intrinseca la disillusione e il pianto che esplode in mezzo al silenzio. La stessa cosa che accade, in perfetta simbiosi audio-video, con la luce del film, smorzata negli interni, sempre onnubilati, tale che poi sia cristallina negli esterni, come nel prato tagliato dal binario e dal treno, mentre David e Rafael litigano, si dimenano sull’erba delineando quella che passa a essere la coreografia di ogni rabbia adolescenziale.