Patagonia di Simone Bozzelli e la distorsione dei sentimenti

Rivendica Peter Pan, Simone Bozzelli, ma la storia d’amore, possesso e liberazione che è alla base di Patagonia (in Concorso a Locarno76) la si può guardare avendo in mente la poesia gentile e infangata che univa Gelsomina a Zampanò. Sulla strada, del resto, si spingono il rude Agostino, animatore di feste per bambini, e il semplice Yuri, ragazzo di periferia occupato dall’affetto e dalle attenzioni dell’anziana zia, che lo tiene come avesse molti anni in meno dei venti che la sua ingenuità nasconde. Agostino, coi capelli rossi e l’aggressività seducente dei suoi modi, attrae il ragazzo per la sua libertà: vive su un camper, non mostra legami e non li cerca, accetta che Yuri, in fuga da casa, lo segua come assistente, anche se non ne ha bisogno. La loro unione segue del resto la linea delle relazioni distoniche che Simone Bozzelli ha raccontato nei suoi magnifici cortometraggi: Amateur, J’adore, Giochi… Tutte storie di sopraffazione fisica e sentimentale nelle quali si nasconde la solitudine e l’inconsapevole disperazione di una generazione che distorce proprio quell’empatia che Agostino professa come qualità indispensabile al suo lavoro. Profondamente empatico e assolutamente fisico è del resto lo sguardo di Bozzelli: il suo è un filmare che cerca la distorsione delle emozioni, e dei sentimenti che ne conseguono, nel volume troppo alto delle relazioni incongrue, malate, irrazionali che mette in atto tra i suoi personaggi.

 

 

Così è in Patagonia, road movie a falso movimento, prigioniero dell’entroterra abruzzese che Bozzelli conosce molto bene, tra case familiari ai margini dei paesi, sterrati polverosi e assolati e lande perse nel nulla, che ospitano una comunità di squatter sospesa sul tempo infinito di un rave. È lì che Yuri e Agostino finiscono per arenarsi col loro camper: il primo in cerca di libertà, il secondo bisognoso di un’ancora. La Patagonia del titolo è la terra dei fuochi che promette un altrove alla fantasia di entrambi. I due si cercano e si trovano nell’opposizione di una attrazione che si basa sull’intreccio tra la poesia rude e seducente di Agostino, un po’ orco e un po’ artista, e la fantasia ingenua e inclusiva di Yuri, un po’ vittima e un po’ artefice: come Zampanò e Gelsomina, i due sono legati da un sentimento della realtà che comprende il bisogno di unione proprio quando il dolore della frattura si fa più atroce.
Bozzelli li segue col suo filmare astratto, puramente empatico rispetto alla messa in scena performativa di cui è capace sin dai corti: un innesto di fattori fisici attoriali, oggettivi scenografici e astrattivi fotografici, in cui è proprio l’empatia tra fattori filmici e narrativi a funzionare potentemente.

 

 

È questa la qualità principale del suo cinema, che transita sicuramente in questo suo atteso esordio nel lungometraggio, per quanto costretta a fare i conti con una struttura drammaturgica più piena, con uno sviluppo dei personaggi più articolato. Fatalmente viene meno quella immediatezza irrazionale, quel furore un po’ astratto e meramente fisico e sessuale che la dimensione più rapsodica dei cortometraggi gli consentiva. Patagonia si inceppa un po’ proprio nella scrittura, nei dialoghi, nell’articolazione delle situazioni: in quelle scene in cui sente la responsabilità di dover spiegare troppo, dire troppo, dare troppo spazio allo sviluppo psicologico delle situazioni e delle relazioni. Simone Bozzelli è uno di quei registi puramente istintivi, ai quali bisogna lasciare mano libera perché facciano implodere il loro cinema completamente. E questo è vero anche nel gioco con gli interpreti: Andrea Fuorto che è Yuri e l’esordiente assoluto Augusto Mario Russi che è Agostino, si offrono al gioco attoriale richiesto dal film con passione tutta pulsionale e con un bel coraggio fisico ed espressivo, ma qua e là subiscono troppo lo schema recitativo, sembrano seguire più la lezione espressiva della pulsione emotiva.