La fine dell’utopia in Samad, di Marco Santarelli

L’utopia di Marco Santarelli si definisce con chiarezza nel suo cinema fatto di concluse relazioni, di trame relazionali che si consumano dentro un agone di confronto che può essere quello della scuola, come nel suo esordio Scuola media del 2010 oppure all’interno di un carcere, luogo nel quale le tensioni si acuiscono amplificando la propria portata. Diventa interessante alla luce di questo suo nuovo film volgere lo sguardo al suo recente passato autoriale, poiché forse Samad non appare perfettamente comprensibile come operazione cinematografica se non si guarda al precedente Dustur,che metteva in scena proprio quell’utopia di una possibile Costituzione mondiale fondata sulla legittimità piena delle religioni e delle culture che trascendono la contingenza dei tempi per affondare le radici in un trascorso passato che si vivifica di momento in momento. Dustur, girato nel carcere di Dozza a Bologna, vedeva la decisiva partecipazione, in qualità di moderatore e organizzatore del dibattito tra detenuti di varia estrazione culturale e religiosa, di Ignazio Di Francesco, monaco dossettiano anche ex giornalista e studioso di diritto islamico. Samad tra i detenuti in attesa del foglio di “fine pena”, ma già affrancato dal mondo della delinquenza del quale ha fatto parte, all’epoca studiava giurisprudenza e lavorava come operaio. Per questa ragione Samad, il nuovo film di Santarelli, trae origine dal precedente costituendone in fondo uno spin off. Il regista romano riprende il personaggio del giovane marocchino uscito dal giro della malavita del narcotraffico che però viene di nuovo coinvolto in una storia di droga e questo segna il suo ritorno in carcere. Nel carcere, proprio quelle tensioni tra detenuti e tra detenuti e Polizia carceraria, ma più in generale tra istituzione detentiva e detenuti, fa scoppiare una rivolta che avrà conseguenze tragiche.

 

 

Anche in questa occasione Samad saprà affrancarsi caparbiamente da ogni fascino della criminalità nel suo percorso di sincero desiderio di redenzione da ogni radicalità religiosa. Per lui figlio di una donna cattolica e di un padre musulmano, la frequentazione delle due religioni nel tentativo di superare steccati culturali diventa un imperativo della coscienza.  Samad con la sua struttura da fiction, conserva l’anima di un film di indagine che pare essere la vera vocazione di Santarelli, tanto serrati i dialoghi nel dramma collettivo della rivolta carceraria quanto a volte farraginoso l’incastro della messa in scena come fiction nel corpo maturo di un lavoro che guarda, ancora una volta, ad una difficile integrazione tra culture, ad una faticosa unificazione di intenti, con il frantumarsi di quelle utopie che sembravano più realizzabili, per quanto sideralmente lontane da una contingenza immediata, in Dustur. Il film sembra dunque fare un passo indietro rispetto al precedente e denunciare un pessimismo del suo autore, che scrive anche la sceneggiatura, dettato forse dalla presa di coscienza di quanto l’idea inclusiva diventi inascoltata e lontana da ogni prospettiva perfino politica. Samad privilegia dunque l’individualità come unica possibile soluzione a questo panorama sconsolante, che il film in realtà riporta in tutta la sua evidenza nella parcellizzazione delle idee e nell’arroccamento senza esitazioni nel chiuso della propria cultura senza ammettere alcuna osmosi e alcun dialogo. Così sono i rivoltosi e così le Guardie carcerarie, vittime di pregiudizi anche se istituzionalmente incaricate di tenere l’ordine nei centri detentivi.

 

 

Interessante per una ulteriore dimostrazione di questo trasparente pessimismo che avvolge la storia, che attinge anche ai filmati di rivolte carcerarie, è la figura di Padre Agostino (Roberto Citran) – nome forse non casuale per la sua rilevanza anche in tema di teologia del quotidiano – prete cattolico che però parla arabo. Un personaggio che funziona da mediatore tra le parti assumendo le vesti di guida spirituale per cattolici e non, dimostrando la sua disponibilità al dialogo e nessuna volontà di evangelizzazione, quanto piuttosto il rigoroso rispetto delle religioni. Ma allo scoppio della rivolta le parole di Padre Agostino non avranno alcun peso e non serviranno a stemperare gli animi. Un altro segno di un manifesto pessimismo. Se don Ignazio diventava autorevole guida spirituale e di diritto nella scrittura di una ipotetica Carta costituzionale nella quale la poliedrica composizione degli interlocutori portatori di differenti radici culturali potesse comunque riconoscersi in un largo rispetto reciproco, non così accade per Padre Agostino che rimane risucchiato e inerme davanti agli eventi. Quell’epoca sembra essere finita, anche l’utopia non alberga più nella fantasia immaginativa del cinema e Samad sembra posare una pietra tombale su ogni speranza di dialogo franco e inclusivo.