La libertà e il destino: Il faraone, il selvaggio e la principessa, di Michel Ocelot

È un viaggio, quello che Michel Ocelot propone nel suo nono lungometraggio d’animazione, ma anche il racconto di un reinizio, come dimostra lo scenario di partenza in cui una donna, novella Sherazade, racconta le sue novelle a un gruppo eterogeneo di ascoltatori. Un “pubblico” indistinto, ma pronto a far sentire la sua, che vuole ascoltare storie, le critica e fornisce spunti: quasi una moderna audience, da catturare e riportare alle origini della tradizione orale. Alle spalle la donna ha un cantiere, simbolo di quella ricostruzione che l’autore avverte come necessaria all’indomani della pandemia – il film è stato in parte concepito e sviluppato durante il lockdown. Da qui si dipanano tre storie, simboleggiate dalle tre figure del titolo, Il faraone, il selvaggio e la principessa: tre racconti, realizzati con tecniche diverse, da differenti gruppi di animatori e che nascono anche in circostanze disparate.

 

 
Il primo (Il faraone) è il frutto di una collaborazione nata con il museo del Louvre di Parigi, durante l’allestimento della mostra Il faraone delle due terre – L’epopea africana dei re di Napata, capace di ispirare questa vicenda – storicamente esatta – di un principe kushita che conquistò l’Egitto. Come per i racconti che seguiranno, a muoverlo è tanto l’amore (solo diventando faraone potrà sposare la principessa che ama e, soprattutto, vincere le resistenze della sua dispotica madre) quanto la voglia di essere artefice del proprio destino. Ancor più, tratto comune con le vicende a seguire è il sangue negato: la conquista avviene senza colpo ferire, ma attraverso la saggezza. L’animazione segue lo stile dei bassorilievi egizi, con una fusione di disegno tradizionale, marionette e tecniche digitali, che definiscono una gentilezza d’approccio, coerente con l’animo dei personaggi.

 

 
Il passaggio al secondo racconto, (Il selvaggio), ambientato nel Medio Evo, vede invece dominare l’animazione in silhouette, per descrivere gli scenari in penombra dello Château de Val, nella regione francese dell’Alvernia. Qui, un giovanissimo principe è vessato dal dispotico padre, e stringe amicizia con un prigioniero che aiuta a evadere. Condannato per tradimento, il giovane trova rifugio nei boschi dove, anni dopo, mina alle fondamenta il regno paterno nei panni del Buon Selvaggio – l’ispirazione viene da una fiaba ritrovata da Henri Pourrat. L’essenzialità dei toni cromatici è accompagnata da dialoghi efficacemente stringati in quello che si rivela un saggio di economia espressiva, capace però di risultare appassionante e ancor più incentrato sul prendere in mano le redini della propria esistenza. Ancora una volta, l’eroe è tale perché fermo nelle sue decisioni ma capace di mostrare saggezza e misericordia per dare forma a un mondo migliore, in netta opposizione a un padre sanguinario – l’azione più spettacolare lo vedrà proprio neutralizzare il boia di corte.

 

 
Con la terza storia (La principessa delle rose e il principe delle frittelle) ci si immerge invece in un’autentica esplosione di colori: adattando una fiaba marocchina, Ocelot sceglie infatti di non aderire strettamente a una realtà storica verificata, mescolando passato e presente (una delle location di ispirazione è il Palazzo Topkapi, ben più recente rispetto ai fatti narrati) per dar vita a un racconto lussureggiante che esplicita il riferimento iniziale a Le mille e una notte. Un principe caduto in disgrazia, cerca di conquistare il cuore di una principessa chiusa nelle stanze del palazzo del sultano, inavvicinabile per chiunque, ancor più per lui che ha trovato lavoro come umile cuoco di frittelle al mercato. Ma, ancora una volta, l’intraprendenza vincerà sul destino. Nel turbinio di coreografie visive, Ocelot sceglie stavolta un’animazione tridimensionale (resa solo un po’ più sintetica dalla cgi, comunque capace di restituire bene gli stati d’animo delle figure) e, soprattutto, esplicita la componente femminista del racconto. Se l’intraprendenza del principe è il motore della storia, non va infatti trascurato come a far sussultare il cuore della principessa sia il fatto che a corteggiarla sia un umile cuoco che rompe il rigido protocollo di corte e le promette una vita di libertà. Come a voler rovesciare l’assunto del racconto iniziale, con gli sposi regnanti, Ocelot lascia quindi l’ultima parola a delle figure affamate di libertà e desiderose perciò di tracciare un avvenire incerto ma carico di aspettative. Un finale ottimista, che non vuole essere necessariamente fiabesco, ma senz’altro di buon auspicio per ogni spettatore.