La magnifica avventura: Grand Tour, di Miguel Gomes

Una grande avventura coloniale che tradisce il movimento. E una storia d’amore in cui gli innamorati sono assenti l’uno all’altra… Geniale fantasmagoria di Miguel Gomes, giustamente premiata per la Regia a Cannes77, Grand Tour è un oggetto di cinema che sta letteralmente fuori dal tempo e dallo spazio: non tanto per posizione teorica, ma per una questione di prassi e anche di pragmatismo… A monte c’è l’idea di una fuga e del conseguente inseguimento: più di cent’anni fa, nella Birmania del 1917, un funzionario dell’Impero Britannico di nome Edward sta scappando dal matrimonio imminente con Molly, la donna che lo ama perdutamente e che per trovarlo si mette in viaggio da sola attraverso l’Asia, seguendo le sue tracce… Una storia di assenza reciproca, insomma: i due non si incontreranno mai, non condivideranno gli stessi luoghi, lo stesso spazio, non staranno mai nella medesima inquadratura. Edward, meschino e spaventato, fugge appena Molly annuncia il suo arrivo e alla fine svanisce nel nulla, lasciando la scena alla ragazza. La quale – dolce, ovviamente ingenua ma anche coraggiosa e determinata – non si ferma davanti a nessun ostacolo e finisce per perdersi in un viaggio che alla fine diventa la sua unica ragione. La reciproca assenza degli innamorati diventa però anche, forzatamente, l’assenza di Miguel Gomes al suo set: è il gennaio del 2020 quando il regista e i suoi collaboratori arrivano a Rangoon con una camera 16mm per filmare sopralluoghi nel sudest asiatico da cui poi sviluppare la sceneggiatura e da utilizzare anche come found-footage nel film. Cinque settimane tra Myanmar, Singapore, la Thailandia, il Vietnam, le Filippine e il Giappone, ma quando sono in partenza per Shanghai, la Cina chiude i confini e inizia l’incubo globale della pandemia…

 

 
Come Edward sfugge a Molly, il film si nega a Miguel, che infatti lo potrà infine trovare solo nell’assenza del/dal set, inventandosi una maniera di filmare a distanza: lui a Lisbona, davanti ai monitor, e il set in Cina, dove la troupe gira seguendo le sue indicazioni. È il gennaio del 2022 e in questa assenza del cinema a se stesso tutto scorre seguendo una strana magia: “Mi turba che tutto funzioni così bene in condizioni simili. Questo rimette in discussione le mie profonde convinzioni rosselliniane e i miei impeti herzoghiani, ma non mi lamento”, dice Gomes… E non è tutto, perché passa un altro anno e nel febbraio 2023 il regista finalmente trova il suo set, ma solo per tradire la sua realtà, per ricostruire in studio (prima a Lisbona e poi a Roma) gli scenari più esotici del sudest asiatico: foreste cinesi, giungla thailandese, templi giapponesi, sontuosi palazzi di Bangkok, battelli sul fiume Yangtze… Tutto in studio e tutto senza un solo fotogramma digitale, anche perché Miguel Gomes è uno di quei registi che ha sempre detto che il cinema si filma solo e soltanto in pellicola!

 

 
Questo è quello che viene prima del film, ma la cosa sorprendente di Grand Tour è che per una volta (o forse una volta di più, soprattutto nel cinema di questo straordinario autore) ciò che viene prima del film corrisponde perfettamente a ciò che il film è dopo, ne è in qualche modo la ragione intima, la profonda magia. Il legame narrativo che si innesta tra vivere, filmare, creare è il senso assoluto del cinema di Miguel Gomes, la prassi di un costante scavalcamento di campo tra la realtà e la macchina da presa: Grand Tour nasce proprio come esaltazione della funzione aleatoria della realtà rispetto alle dimensioni eccedenti del filmare, come grande film d’avventura in cui l’avventura è il cinema in sé, l’intreccio di funzioni che si attivano sul set, la scansione delle location esotiche da attraversare e filmare, la sovrapposizione di epoche, forme e formati… L’innesto di presente e passato, bianco e nero e colore, messa in scena e presa diretta, è l’idea stessa di un film che poi si spinge dolcemente nel languore di una finzione trovata nella materialità meccanica di un set che incarna l’esotica visione… Per un regista che ha sempre girato in tondo, in narrazioni concentriche, in universi definiti, Grand Tour è una sfida innovativa, perché spalanca le griglie della narrazione a una ibridazione esposta. Ma è anche la certezza che è nella materia del filmare, nell’atto pratico, concreto, assoluto che si svolge sul set, che si inscrive in senso autentico della verità cinematografica.