Più di ogni altro dei diciassette brani non originali che compongono lo scheletro (anzi, no: la muscolatura) musicale del film (una media di uno ogni sette minuti, escludendo la partitura originale di David Lang), è il crescendo spaventoso e inebriante di Storm dei Godspeed You! Black Emperor -sulla sequenza di levitazione del monaco buddista- il pezzo/cardine e rivelatore di tutto il furore estatico, bulimico ed entusiastico di Paolo Sorrentino: che in Youth – La giovinezza, sembra concepire per la prima volta un suo intero lavoro più a livello compositivo che narrativo. Il brano, all’origine di 22 minuti e rotti, è il vertice del secondo LP (Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven , 2000) del collettivo canadese per cui all’apparire del primo album (F♯ A♯ ∞, 1997) si spesero recensioni atte a magnificarne la natura di soundtrack immaginario. Sicché, (quasi) tutto torna da subito. Di tutte le sentenze scolpite nel marmo che marchiano il film come una ineludibile cifra (ironica?) e impossibili da ricondurre nella contraddittorietà dei loro significati a un unico flusso di autocoscienza sorrentinana, ce n’è una, pronunciata da Ballinger/Caine che però suona limpida e impossibile da non considerare come una confessione pubblica: “Io capisco solo la musica. E sai perché la capisco? Perché la musica non ha bisogno delle parole, né dell’esperienza. La musica c’è.” E questa musica c’è per Sorrentino, prima ancora che per i suoi personaggi, indipendentemente dai rapporti che a essa li leghino (Jep Gambardella, per esempio, la subisce e a far l’amore comincia tu; Cheyenne la rilancia anche se Every Single Moment in HIS Life Is a Weary Wait). Non a caso Ballinger/Caine, il Direttore d’Orchestra (ovvero, il demiurgo di musica altrui oltreché -ma non necessariamente, anche se qui sì- della propria), si salva, mentre l’Autore Boyle/Keitel muore.
[E in questa tenaglia di simboli-Cinema sta uno dei mille possibili discorsi di Youth, (senz’altro più interessanti di quello eminentemente narrativo sui cui si è fatta a gara a dire/fare/baciare un mare di piatte superfici analitiche): l’Autore (Boyle) è destinato a fallire; il Regista (Ballinger) a scendere a patti con se stesso per vivere il poco che gli resta in una pace illusoria; il Divo/Diva -eh…- del tempo che fu (Morel) a provare a perpetuare il suo stesso mito in osmosi di medium (la neo-Tv) salvo poi soccombere al rimpianto e al rimorso; la Star del presente (Tree) ad affrancarsi dall’icona presumibilmente anedonica del robot indagando la natura desiderante del mostro (Hitler) di fronte a un pubblico interdetto; mentre il vero Genio (Maradona) sta altrove, e seppur offeso nel corpo saprà sempre palleggiare con Dio. E la Musa guarda ormai catatonica il niente fuori da una finestra d’ospedale…]
Con Youth, Sorrentino spinge all’estremo la sua necessità di musica come motore di creazione, mettendo in conto una gratuità a cui fa beffardamente spallucce: non solo perché fa dirigere a Caine mucche, vento e campanacci o perché cerca il ritmo nello stropiccìo di una cartina di caramella Rossana prima di affidare la sua semi-catarsi all’apoteosi della Simple Song finale cantata dal soprano Sumi Jo; ma soprattutto perché nell’assemblaggio di un corredo sonoro senza preconcetti di genere o di esecuzione (parecchi brani sono cover, come quelle della Retrosettes Sister Band) si concede un percorso di puro, egoistico piacere uditivo “privato” spesso affrancato da associazioni didascaliche e impossibile da interpretare o ricondurre a un misero significato. Il metodo è già chiaro fin dalla prima sequenza, con quell’esecuzione, quasi integrale e già pleonastica pur trattandosi dell’incipit stesso del film, di You Got The Love, hit ultrapop dei The Source, anno 1986 (ma inclusa dopo aver ascoltato la versione del 2009 dei Florence + The Machine, mi ci giocherei una mano). A cui segue, in una vertigine di sole suggestioni e controtempi mentali, tutto e il suo ovvio contrario: la partitura originale del post-minimalista David Lang (la sua I Lie spiccava in La grande bellezza: qui è responsabile di tutta la musica originale irrobustita dalla presenza ripetuta di Just (After Song of Songs), affascinante intarsio liberamente ispirato al Cantico dei Cantici, tra musica sacra e Laurie Anderson, eseguita dal trio Garth Knox, Agnès Vesterman, Sylvain Lemêtre); i languori riformulati della Reality (omaggio a Garrone?) di Il tempo delle mele e una cavatina dalla Virginia del conterraneo partenopeo (d’adozione) e antesignano verdiano Saverio Mercadante; Debussy e David Guetta; Stravinskij e Pharrell Williams per interposta Paloma Faith, la popstar brava a letto (Tutti si lasciano / le persone vanno e vengono / non preoccuparti: amare significa perdere / e perdere è amare / Il tuo spazio verrà riempito / Le tue parole verranno usate da qualcun altro / e potrebbero non essere altrettanto piacevoli / ma quando si alzerà il sipario / io sarò lì ad affrontare la folla: cercate il video esistente di Can’t Rely On You, aperto da questo recitato); Bill Callahan fu Smog alle prese con un medley/remake di The Breeze/My Baby Cries della folksinger Kath Bloom (nota anche in ambito avant per le sue collaborazioni con Loren MazzaCane Connors); l’elettronica ignorante dei Ratatat (visti in giro coi Vampire Weekend, Paolo?) e la Dalida piafesque anche lei coverizzata di (titolo illuminante per i detrattori del regista) À ma manière. E poi, ovviamente, Mark Kozelek aka Sun Kil Moon (e fu Red House Painters), cantautore colto a cui stavolta tocca il compito di presenza che fu di David Byrne in This Must Be The Place (ma l’ex-leader dei Talking Heads c’è ancora, con un brano – Dirty Hair – che per amor di cortocircuito viene dritto dalla colonna sonora di un altro film: Young Adam), e che fa la parte del leone con tre brani “eccentrici”: l’incredibile Third and Seneca eseguita come Sun Kil Moon (I’m retiring and you’re aspiring / You’re dream-chasing, I’m only escaping: il pezzo è tratto da Admiral Fell Promises del 2010, anche se una canzone qualunque dall’album dello scorso anno, Benji, dominatore delle playlist alternative di mezzo mondo, sarebbe stata una scelta più paracula: dannato snob!), l’ennesima cover (Onward, nientepopodimeno che degli Yes) e la (concedetecelo) meravigliosa Ceiling Gazing eseguita con il post-rocker Jimmy Lavalle (ovvero The Album Leaf: i sorrentiniani di più stretta osservanza ricorderanno la sua Over the Pond intessuta tra le maglie di L’amico di famiglia), a cui viene giustamente data una posizione di preminenza e risonanza. Forse anche perché (chissà…) viene da un album (Perils From The Sea, 2013) al cui interno figura un titolo che potrebbe (mah…) essere preso a epitome (vai a sapere…) di tutto il gesto e il sentire sorrentiniano: e che s’intitola Somehow the Wonder of Life Prevails. Boh. Sipario.