La palestra delle atrocità in Educazione fisica, di Stefano Cipani

Nel film tutto sembra funzionare, tranne il film.
La regia fa di tutto per fare dimenticare che si tratti di uno script già opera teatrale La palestra di Giorgio Scianna. Il montaggio di Jacopo Quadri lavora con efficacia sui ritmi narrativi, gli attori pur legati ad un copione a tratti inverosimile e per il resto prevedibile fanno il possibile per fare dimenticare l’improbabilità di alcuni dialoghi e gli scontati contenuti degli altri. In altre parole il film, teoricamente inteso, tranne che per un lavoro di scrittura dei dialoghi, ce la mette tutta per funzionare e da questo punto di vista arriva fino in fondo con sufficiente agilità. Il problema è quello che sta in mezzo a tutte queste cose in questo Carnage italiano nel quale si prova, relazionandosi a fatti di cronaca, ad indagare sulla mostruosità dei personaggi, talmente rappresentativi da essere categorizzati con netta precisione, dai vestiti alle pettinature e dai dettagli che costituiscono un quanto mai inappuntabile (troppo inappuntabile) perfetto catalogo dell’altrettanto perfetto personaggio. Per provare a comprendere le sue disfunzioni è forse necessaria qualche parola sulla storia.

 

 

I genitori di tre studenti vengono convocati dalla preside per delle comunicazioni che riguardano i figli. È così che, Franco (Claudio Santamaria) padre di Cristian, Carmen (Raffaella Rea) madre divorziata di Giordano, Rossella (Angela Finocchiaro) e Aldo (Sergio Rubini) genitori adottivi di Arsen, si ritrovano nella vecchia e cadente palestra dove apprenderanno le ripetute malefatte dei figli a danno di una ragazzina loro vittima. Franco e Carmen appartengono ad una classe sociale agiata e lui, in particolare, è un immobiliarista. Aldo e Rossella sono, invece, due proletari si sarebbe detto un tempo, apparentemente pieni di buoni sentimenti funzionalmente correlati all’opposta animosità e arroganza di Franco, preoccupato solo di non perdere troppo tempo. Si aprono i conflitti e si scatenano i giudizi che coinvolgono, al solito, la vittima in un profluvio di pregiudizi malevoli e cinici e in un contraddittorio con la preside, che riteneva di avere la loro collaborazione davanti ad una violenza a danno di una ragazzina e trovando, invece, una mostruosa indifferenza da parte di tutti, accomunati dal condiviso sentimento volto a preservare il futuro dei propri figli. Il dramma però volge presto nelle tinte più cupe di un imprevedibile finale.

 

 

La sceneggiatura è dei fratelli D’Innocenzo che restano in un terreno di loro conoscenza, insistendo su un certo male oscuro che colpisce la parte per il tutto guastando l’anima di questo Paese. Ma c’è un’operazione verità che questa volta non funziona, colpevoli i dialoghi “si ci vuole qualcuno che l’aiuti” dice uno di loro, “sì ci sono dei centri specializzati” ribatte l’altro e subito di rimando conclude un terzo: “uno psicologo”. Personaggi senza sfumature e dialoghi inverosimili, perfino a volte pronunciati a fatica dagli stessi consumati attori, ci restituiscono un film nel quale si fatica a trovare davvero un rapporto con il mondo, con tutto quello che fuori da quella palestra delle atrocità categorizzate, continua ad accadere. Un film al quale sembra, purtroppo, mancare l’anima e il respiro vitale, che finisce in un cul de sac, come i suoi personaggi, scivolati dalla normalità della loro vita dentro questo incidente che, superato con il cinismo becero e diffuso, ci tornano senza ferite e senza segni che manifestino un mutamento. È la non raggiunta finalità dell’accaduto e per il film la non raggiunta finalità dell’opera.