Su Chili La ragazza d’autunno di Kantemir Balagov e l’eloquenza dei corpi

Amore (come ragione involontaria di) Morte: una madre gioca felice con il suo bambino e, a causa di uno spasmo che la immobilizza, lo soffoca. Amore (come antidoto alla) Morte: alla notizia che suo figlio è morto, una madre cerca un uomo con cui concepire un altro figlio; un medico che ha perso i suoi figli si dedica ai pazienti con cura paterna. Amore (come pietà che dà la) Morte: una donna chiede che suo marito, colpito da una paralisi totale, venga sottoposto a eutanasia. Sul confine mobile e incerto tra Amore e Morte, coppia archetipica cui dai poemi omerici in poi è stato affidato infinite volte il compito di riassumere il senso dell’esistenza umana, sosta e scava fin dalle prime sequenze La ragazza d’autunno (Dylda, 2019), secondo lungometraggio co-sceneggiato (con Aleksandr Terekhov) e diretto dal russo Kantemir Balagov, che si è già aggiudicato il Premio FIPRESCI e il Premio Miglior Regia all’ultimo Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard e il premio Migliori Attrici a Viktorija Mirošničenko e Vasilisa Perelygina all’ultimo Torino Film Festival, oltre a essere inserito nella shortlist dei dieci semifinalisti per la categoria Miglior Film in lingua straniera agli Oscar 2020.

Ispirandosi al libro La guerra non ha un volto di donna (1985) del Premio Nobel Svetlana Alexievich, Balagov decide di compiere la sua ricognizione di quella coppia archetipica inesauribile articolandola in una manciata di storie che ruotano attorno alle giovani donne Iya (la «spilungona» indicata dal titolo originale, tradito dalla traduzione italiana) e Masha, ambientate nel 1945 in un ospedale militare di Leningrado poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. L’affannosa ricerca della maternità da parte di Masha, la dolorosa ricerca di affetto da parte di Iya, entrambe infermiere in quell’ospedale, la speranza di guarigione dei soldati convalescenti, la resistenza e l’energia della città prima assediata poi liberata risolvono la coppia Amore-Morte dandole le sembianze strazianti del bisogno di ricostruzione del senso della vita che segue la distruzione della guerra. Sembianze che Balagov, già allievo di Aleksandr Sokurov, compone documentandosi sulla storia, ricostruendone meticolosamente gli ambienti e gli oggetti, riducendo all’essenziale i dialoghi e soprattutto affidandosi con intensità abbacinante all’eloquenza dei corpi e al potere delle immagini, cesellate entro una palette rigorosa e drammaticamente contrastata (si veda il gioco di seduzione-competizione-integrazione tra il verde e l’ocra, che accompagna quello analogo tra le due protagoniste). L’esperienza estrema di azzeramento della vita e del suo senso provocato dalla guerra (Iya soffre di sindrome post-traumatica che le provoca spasmi e incoscienza improvvisi, Masha è stata sterilizzata) è però in grado di liberare le energie impensabili di una vita che vuole ricostituirsi a tutti i costi, finendo per produrre assetti relazionali imprevedibili, oltre ogni ordine biologico (la maternità si rivela solo una metafora, benché potentissima), e dimostrando come in un teorema l’inesauribile creatività dell’Amore in risposta alla Morte.