La rivelazione dei supereroi: Glass, di M. Night Shyamalan

Si riparte dall’incredibile ribaltamento prospettico che aveva ricollocato il dramma a personalità multiple di Split nell’ormai dimenticato mondo supereroistico di Unbreakable, subito prima dei titoli di coda. Fra i due film di M. Night Shyamalan un (quasi) ventennio in cui i “super umani” sono passati da nota marginale a elemento centrale dell’industria dello spettacolo americano. Per questo, i primi minuti di Glass sembrano quasi ossequiare le logiche dei cinecomic moderni: Bene contro Male, l’indistruttibilità di David Dunn (con il figlio a ricoprire ora il ruolo del tipico “Uomo sulla Sedia” che guida l’eroe) contro la ferocia dell’Orda e della Bestia di Kevin Wendell Crumb.
Sullo sfondo, l’inaugurazione dell’Osaka Tower di Philadelphia, presagio di uno scontro finale ad alto tasso di azione e superpoteri. Ma poi ecco il primo di una serie di twist: il film si chiude addosso ai personaggi, e mentre rivela l’eponimo villain (Mr. Glass, l’Uomo di Vetro), confina i tre “esseri speciali” in una struttura psichiatrica, alla mercé di un nuovo personaggio, la dottoressa Ellie Staple. L’azione viene così riscritta nel segno del kammerspiel, in un confronto tra visioni del mondo che apparirà funzionale all’intero impianto teorico della vicenda. Solo nei minuti finali, infatti, come da firma dell’autore, Glass rivelerà quanto questo conflitto tra realtà e fantasy, tra possibilità e equilibrio, sia in verità uno scontro fra “supercattivi”.

In questo senso, il ribaltamento più radicale che Glass opera sulla mitologia fondata tanti anni prima è proprio il ridimensionamento di David Dunn: l’eroe riluttante è niente più che una pedina di un gioco dove l’autore sposa il punto di vista del “cattivo” (come il titolo stesso del film ribadisce). Ce lo anticipa attraverso piccoli segnali – il figlio di Dunn capisce cosa sta accadendo quando si ritrova davanti al reparto “villain” di una fumetteria – e lo rivela in una serie di ulteriori twist nell’ultimo atto. La logica del “colpo di scena”, che il pubblico dell’autore (ri)conosce sin da Il sesto senso, negli anni è stata riproposta da Shyamalan con tratti sempre più peculiari: ora per esaltare i limiti in cui erano costretti i suoi personaggi (si pensi a The Village), a volte per affermare il pensiero soggettivo del narratore rispetto alla realtà. Nel complesso, la pratica è servita ad affermare sempre come la natura delle storie del regista sia basata sull’importanza della rivelazione, in un senso quasi religioso del termine: rivelare come esista un mondo più grande, un intreccio di piani del reale dove è possibile vedere la gente morta, ricevere segni per uscire dalla propria crisi, in cui operano forze- guida che hanno spesso un aspetto fantastico, siano essi i supereroi o le ninfe di Lady in the Water. Quest’ultimo, forse il lavoro più spregiudicato e incompreso dell’autore, è anche il più vicino a Glass, per come la rivelazione passa per una riscrittura del reale dove bisogna determinare nuove regole e ruoli, secondo una logica che guarda alla cultura pop – lì erano i giochi di ruolo, qui i fumetti. Perché l’ambizione più grande di Shyamalan è essere serissimo mentre intrattiene, in un gioco di opposti che qui si ritrova proprio nella staticità di un confronto “fermo” nell’azione eppure fluido e repentino nelle articolazioni. Un po’ come le personalità di Crumb evocate con un semplice flash, in un incredibile tour-de-force recitativo di James McAvoy, contrapposto alla recitazione in levare di Willis e all’alternanza catatonia/movimento di Samuel L. Jackson. La dialettica che Glass quindi intrattiene con e al di là di sé stesso è ad ampio raggio, apre nuove direzioni mentre chiude la vicenda, gioca con i cromatismi rompendo l’aura plumbea dei precedenti “capitoli”, immergendo i suoi protagonisti in improvvise esplosioni di colore. La tensione a passare dal dentro al fuori è iscritta sui corpi stessi dei personaggi: la fisicità di David/Willis è minacciosa ma trasparente; le personalità di Crumb si contendono il diritto di “arrivare alla luce” in repentini cambi fisici; e la lotta per accettare la verità degli eroi dà vita a un escape movie per portare la rivelazione nel mondo esterno. Il tutto mentre il master plan dell’Osaka Tower si rivela un semplice macguffin verso altri snodi. Perché questo viaggio in una mitologia del supereroe rivelato non è capriccioso, ma si basa sulla forza dei legami interpersonali, sulla voglia delle forze “alte” di intrecciarsi con quelle del mondo umano. E sulla concretezza del gesto fisico, dove davvero ruoli e dinamiche si realizzano: c’è il tocco di David che rivela il passato della gente e lo spinge a intervenire; quello di Crumb che frantuma per l’ultima volta le ossa di vetro di Elijah; quello di Casey per cercare di “portare alla luce” l’autentica personalità di Kevin. In tutti i casi elemento comune, unificante persino tra gli umani e gli eroi, è il dolore, quello che unisce madri umane a figli speciali, vittime a carnefici e che scompagina le carte, esattamente come l’Uomo di Vetro fa nella battaglia fra l’Indistruttibile e la Bestia. Anche per questo, i razionalismi e i giochi mentali della dottoressa Staple non possono che essere “cattivi”. La rivelazione del dolore è fondativa rispetto al cinema di Shyamalan e ne stabilisce la portata di eterno dialogo con la morte come chiave interpretativa della vita. Per effetto del quale anche un epilogo drammatico può diventare la via d’accesso a un finale pieno di speranza.