La rivoluzione di Bruce Lee 50 anni dopo: torna al cinema I 3 dell’Operazione Drago, di Robert Clouse

Per Bruce Lee era il sogno da lungo tempo inseguito: essere il protagonista di una pellicola hollywoodiana, dopo gli anni spesi a combattere lo stereotipo del comprimario cinese – magari anche un po’ macchietta – che dominava nell’industria americana. Consapevole com’era di un cambiamento in atto nella società occidentale, che partiva dalla diffusione delle arti marziali tramite le scuole (come quelle che aveva aperto anche lui), Lee non era infatti un semplice attore/atleta che voleva sfondare nel “giro grosso”, ma un artista capace di vivere appieno la sua contemporaneità, anche perché aveva contribuito in modo consapevole a plasmarla. Il film, in questo senso, riflette molto bene il piano: una storia cosmopolita, in cui il personaggio di Lee si affianca a un americano sbruffone (il grande John Saxon) e a un nuovo talento di colore (Jim Kelly), che porta in dote non solo gli umori della coeva blaxploitation (quella più problematica, infatti lo vediamo sfuggire a dei poliziotti razzisti), ma anche la forza delle comunità nere che erano state protagoniste nel movimento di accettazione del kung fu – nella scena iniziale, non a caso, Kelly fa anche tappa in un dojo.

 

 

Certo, l’approdo al film finale non fu semplice, il progetto decollò dopo molte incertezze e rinvii, al punto che Lee, dopo i successi hongkonghesi, già lavorava al suo film internazionale da quella parte dell’oceano – il celebre The Game of Death, rimasto purtroppo incompiuto e poi rielaborato in forma completamente diversa ne L’ultimo combattimento di Chen. Per fortuna alla fine il cerchio si chiuse e I 3 dell’Operazione Drago è diventato realtà, pur uscendo poi postumo nelle sale per la prematura scomparsa dell’attore. Che qui fa un po’ di tutto: recita, coreografa gli scontri, convince Lalo Schifrin a realizzare l’iconica colonna sonora, impone addirittura il titolo del film e coopta i nomi più interessanti della scena attoriale e marziale contemporanea, da Sammo Hung (nello scontro iniziale) a Angela Mao (la sorella), a Roy Chiao (non un marzialista in senso stretto, ma attivo contestualmente nel cinema di King Hu), sino al fulmineo cameo di un ancor sconosciuto Jackie Chan. Il tutto mentre inventa anche nuove icone come Yang Sze/Bolo Yeung, che ritroveremo oltre dieci anni opposto a Jean-Claude Van Damme e a Cynthia Rothrock.

 

 

Su queste singole parti virtuose, si innesta una storia che non risparmia i cascami di un certo esotismo per il pubblico occidentale, con un cattivo (testualmente definito “da fumetto) a metà strada tra Fu Manchu e i villain di James Bond. Lee risponde con un personaggio che è al contempo una conferma e un’evoluzione dei suoi eroi cinesi: come loro è apolide, trova la sua dimensione in una terra che non è la sua (l’isola del torneo come l’Italia de L’urlo di Chen o la Thailandia del Furore della Cina colpisce ancora), mosso da una morale di giustizia, evidente nel desiderio di vendicare la morte della sorella e la solidarietà esibita verso le fasce sottoproletarie che abitano le baracche del porto. In mezzo c’è stata però la rivoluzione del Lee maestro, del Jeet Kune Doo e del “combattere senza combattere”, della sintesi che anticipa le arti marziali miste e mira all’efficacia del combattimento in pochi colpi.

 

 

Dunque non più lunghi duelli-performance come quello (indimenticabile) contro Chuck Norris nel Colosseo, ma scontri veloci e una capacità rinnovata di riflettere sul senso della rappresentazione, sublimata dal memorabile finale wellesiano tra gli specchi. Qui I 3 dell’Operazione Drago dimostra ancora la sua modernità: nel gioco degli stereotipi (l’americano attratto dal denaro, il nero dalla foga amatoria infinita, il cinese filosofo, il cattivo pittoresco), il film mette lo spettatore di fronte alla natura ingannevole della realtà: un torneo che nasconde un’impresa criminale, una rete di sospetti reciproci fra partecipanti e organizzatori, una sfida lanciata dallo sbruffone neozelandese che si risolve in una gag con l’abbandono in mare. E soprattutto un nuovo modello di protagonismo che alla fisicità esibita del corpo muscolare rigato dal sangue e sempre pronto ad assumere una posa iconica, nasconde una personalità cangiante e in grado di adattarsi alle situazioni, che produce una tecnica duttile e versatile. Il famoso “be water” che ha reso celebre il Lee pensiero e che testimonia la natura rivoluzionaria di un uomo che aveva raggiunto il suo scopo nell’industria e usava il cinema come un prolungamento della sua attività fuori dal set, in una sinergia irripetibile.