La sindrome antimaterna in Senza prove, di Beatrice Pollet

Proliferano in Francia i film legati ad una coscienza della maternità che rimette in discussione una certa costante retorica legata ad un più o meno senso del dovere e ad una piena realizzazione del proprio essere femminile attraverso e grazie alla maternità. Dalle speculazioni di Saint’Omer di Alice Diop, alla limpida storia di Rachel in I figli degli altri di Rebecca Zlotowski per arrivare, se vogliamo, ad un’altra piena negazione della maternità in L’evenment di Audrey Diwan o ad una contraddittoria sua affermazione in Le ravissement di Iris Kaltenbäck. Senza prove di Beatrice Pollet si aggiunge a questa lista diventando anche il quarto film sull’ampio tema diretto da una donna. Claire (Maud Wyler), sposata con Thomas e con le sue due bambine, sembra vivere una vita perfetta. Una sera il marito fa tardi al lavoro e quando torna la trova in un lago di sangue. Al suo risveglio in ospedale la piantona la Polizia. Un neonato è stato trovato su un cassonetto dell’immondizia avvolto tra gli asciugamani. Claire non aveva alcun sintomo della gravidanza e neppure il suo corpo era mutato come accade per le donne in attesa di un bambino. La violenza fatta al minore, rubricata come tentato infanticidio, la porterà davanti al Tribunale penale.

 

 
Il film di Beatrice Pollet è legato a quella che la scienza chiama negazione della gravidanza e si confonde con qualcosa di inespresso e perfino di ancestrale che porta ad uno sguardo all’indietro nella vita della donna, alla sua famiglia e ai suoi antenati. L’indagine di Sophie, (Géraldine Nakache), la sua amica avvocato che la difende nel processo servirà a scardinare il senso comune di una cronaca che condanna la donna e ne vuole fare un esempio di punizione per l’intera collettività. Nella sua andatura ritmicamente conforme ad una indagine giudiziaria, ma con la sua proiezione nel sentire del corpo sociale, tema che sembra essere dominante nel racconto, nonostante l’aria privata del clima che si respira, la storia di Claire – ispirata ad un fatto reale e ad un vero processo che è seguito alla vicenda – diventa un altro tassello di quella lenta erosione proprio di quel comune senso verso i temi della maternità. Superando ogni indagine sociologica, il film si concentra su quell’ulteriore diritto della negazione della maternità che più che una decisione cosciente appare come una inferenza biologica, una difesa subliminale verso qualcosa che appartiene al proprio passato o a quello della propria famiglia. È qui che si aprono le contraddizioni, nell’incapacità o forse nell’impossibilità che le leggi dominino e regolino un tema prettamente psicologico. Questa impreparazione emerge dal film nella cocciuta ostinazione dell’apparato accusatorio incapace di concepire – è il caso di dirlo! – la possibilità della negazione della maternità. Senza prove sa mettere lo spettatore davanti a questa separazione tra mondo interiore di Claire, che emerge anche nella gelida incapacità di comunicare con la propria madre distratta ormai da tempo, e quel mondo esteriore incapace di guardare al di là di una stretta osservanza di norme, di rigida applicazione della legge scritta, trascurando quella etica del rispetto di una disfunzione.

 

 
Un tema che appartiene al corpo, al corpo esile di Claire, messo sotto accusa perché non mutato dalla gravidanza, un corpo che resta segno di quella negazione in un processo di espropriazione e di prova evidente di una colpevolezza riconosciuta e non emendabile se non con la reclusione. È il lavoro che Sophie sa fare emergere con la sua indagine privata, nella consapevolezza tutta femminile di una battaglia che non resti isolata dentro le contingenze della cronaca che riguarda la sua amica-cliente, ma in una più ampia prospettiva futura che sappia guardare ad un’altra liberazione da un altro pregiudizio. Opera dunque radicata dentro i vortici di una marginalità sociale, di una rara sindrome anti-materna che Beatrice Pollet risolve nel quasi silenzio di una intimità di sguardi che la sua Claire sa restituire in bilico tra la paura e lo sgomento, ma nella solitudine di una intimità senza via d’uscita.