La solitudine delle ombre: Estranei di Andrew Haigh

Non è uno spazio astratto, quello che crea Andrew Haigh nei suoi film, e non è nemmeno uno spazio mentale. È piuttosto una via di mezzo tra uno stato percettivo introflesso, in cui il mondo reale diventa un flusso che inonda la realtà interiore dei protagonisti, e una sensibilità estroflessa, in cui gli stati emotivi dei personaggi bagnano come una mareggiata il mondo… Estranei, in questo senso, è al momento forse il suo capolavoro, di sicuro il film che meglio definisce questo teorema che del resto è alla base di tutto il suo cinema. Interamente scritto in sospensione sul luogo mentale della memoria, questo dramma della solitudine raccontato come una storia d’amore è in realtà un magnifico mélo che manca a se stesso, in cui gli elementi dell’amore, della perdita, della separazione, dell’agnizione sono impliciti e reconditi, vagano come elementi fantasmatici che scavalcano la narrazione e occupano l’intero corpo espressivo, quasi fossero una figura retorica che non ha né mittente né destinatario, perché si conclude in se stessa.

 

 
Come in tutti i film di Andrew Haigh – dai cortometraggi (Oil, Cahuenga Blvd) a Charley Thompson, passando per Greek Pete, Weekend e 45 anni – anche Estranei è un ritratto guardato in uno specchio, e non solo perché i tratti della figura in campo ci giungono attraverso i riflessi, le rilucenze, i tagli di luce che intervengono sulla definizione netta e precisa dell’immagine. Il punto è che per questo regista inglese è nell’altro che si riflette la vera immagine di sé, è nella relazione che si supera la narrazione di sé e si può vedere la verità del proprio corpo, dei sentimenti e delle emozioni che compongono e definiscono la propria identità. Adam (Andrew Scott), il protagonista di Estranei, è uno che le narrazioni le conosce: uno sceneggiatore, che vive nell’alto della sua torre londinese, solo con la pagina bianca davanti alla quale tentenna, mentre un allarme (antincendio) lo costringe a scendere per strada e a guardare in alto, in cerca di un fumo che non c’è. Quello che vede – e da cui è visto – è però Harry (Paul Mescal), un inquilino del sesto piano, poco più di un riflesso dietro una finestra, che bussa poi alla sua porta, un po’ ubriaco, in cerca di una compagnia che infranga quella solitudine che è sua ma, intuisce, anche di Andrew.È l’inizio di una storia d’amore, che potrebbe sembrare lo specchio di Weekend, ma in realtà è il riflesso di un’altra storia d’amore raccontata da Andrew Haigh: la storia d’amore mancata, che costituisce la backstory di 45 anni

 

 
Perché questo è un film di spettrali abbracci, l’inversione di un universo gotico (che prende le mosse dal romanzo del giapponese Taichi Yamada, non a caso già portato sullo schermo negli anni ’80 dal Nobuhiko Ôbayashi di House…) nella sua forma più estrema ed estraniata, quella del dramma esistenziale, della messa in scena della solitudine, del silenzio del mondo reale, della vanificazione delle azioni. L’incontro con Harry è per Adam l’incipit di una storia che lo fa tornare in se stesso, gli fa cercare le tracce della sua solitudine, il ricordo di un’infanzia interrotta per la morte improvvisa dei suoi genitori che lo avevano lasciato dodicenne e orfano. Le foto, gli oggetti e un treno che lo riporta davanti a quella casa dove aveva vissuto gli anni (in)felici da adolescente segretamente gay: lo spettro della realtà è quello del tempo che non è trascorso per quella mamma (Claire Foy) e soprattutto quel papà (Jamie Bell) che lo accolgono in casa, ora come allora: ancora giovani, ancora vivi, ancora prodighi di carezze e abbracci. Custodi del “loro Adam” e curiosi di cosa Adam è diventato dopo di loro: quello che è e come vive nel mondo. Il film è tutto in questo spazio paradossale che annulla il tempo e che corrisponde alla flagranza un po’ astratta eppure sempre concretissima della memoria intima, quella su cui si struttura l’identità di un uomo, perché è fatta di riflessi, odori, contatti mancati, carezze rubate. Che è cosa diversa dai ricordi che si possono condividere in una narrazione di sé. In Estranei, Andrew Haigh dice l’indicibile e lo sospinge nel controcampo di una love story che astrae il mondo e si concretizza nella solitudine, nello scarto tra la realtà e il desiderio. La distanza che unisce e separa Adam dallo spettro dei suoi genitori è la stessa che lo unisce a Henry, ed è quella che occupa uno spazio introspettivo in cui la cronografia dei sentimenti corrisponde alla geometria della solitudine. E non lascia traccia nella realtà, perché ha già superato il mondo in un abbraccio con se stessi che a questo punto ha senso immaginare sospeso in una dimensione quantica…