Su Chili la spietata malinconia di Galveston di Mélanie Laurent

Nic Pizzolatto ha scritto Galveston (il romanzo) nel 2010, prima si era fatto notare con due racconti davvero notevoli (Ghost-Birds e Between Here and the Yellow Sea) che erano un po’ una prova generale: la poetica, l’attitudine, il ritmo sono identici a quelli del romanzo. Poi è arrivato Galveston, subito molto amato e tradotto ovunque, uscito con la benedizione di Dennis Lehane:” Il miglior roman noir che ho avuto la fortuna di leggere negli ultimi dieci anni. Dark, duro, sexy, malinconico”. Hollywood si è interessata e gli ha commissionato una sceneggiatura, ma non c’è stato il tempo per chiudere il progetto. Nic ha creato True Detective e si è scritto la sceneggiatura di 24 episodi per tre stagioni. Ripreso lo script, la produzione si è posto il problema di trovare un regista in sintonia con Pizzolatto che non è un tipo facile ai compromessi. Ne sa qualcosa Jeremy Saulnier (Green Room, Hold the Dark) che è stato costretto a lasciare il set della terza stagione di True Detective  dopo aver completato solo due degli otto episodi in programma. In seguito è stato rivelato che la partenza del regista era dovuta al continuo attrito tra lui e Pizzolatto. Durante la lavorazione di Galveston il conflitto si è ripresentato: la regista Mélanie Laurent (ottima attrice, la Shosanna di Bastardi snza gloria di Tarantino e regista con un’interessante carriera in costruzione) si è proposta con una sua idea forte sul film ed è intervenuta sulla sceneggiatura:”“Il mio modo di lavorare prevede di ascoltare il mio istinto. Se durante una scena gli attori fanno qualcosa di forte e imprevisto, è mia opinione che li si debba assecondare, seguire. Per questo ho aggiunto momenti di vita alla sceneggiatura”. Pizzolatto non ha gradito i “momenti emotivi” e non sentendosi rappresentato dal lavoro finale ha chiesto che lo script fosse firmato con uno pseudonimo (Jim Hammett). Per comprendere di cosa si sta parlando, una delle scene più controverse (che non esisteva sulla pagina) è quella in cui Elle Fanning immersa nella vasca da bagno piange disperata.

 

 

1987, New Orleans. Roy Cady (Ben Foster) lavora per il boss Stan Ptitko (Beau Bridges). Fa il lavoro sporco, minaccia, picchia, qualche volta uccide. Un giorno gli viene diagnosticato un cancro ai polmoni, la notte scampa miracolosamente ad un agguato organizzato dal suo capo. Fugge con Rocky (Elle Fanning), prostituta 19enne che ha trovato legata nell’appartamento dove i killer lo avrebbero dovuto ammazzare. Sulla strada la coppia diventa un terzetto dato che si fermano a recuperare Tiffany, la sorellina di 3 anni di Rocky. Poi via fino a un motel di Galveston abitato da un bel campionario di sconfitti, il luogo ideale per nascondersi e ricominciare. Forse. Al netto delle polemiche il punto è se Galveston merita di essere visto. E la risposta è positiva. Se il romanzo è la lancinante ricerca di una casa e di un passato (Il passato è un sogno irrealizzabile quanto il futuro, entrambi  lì per tenere a bada gli assalti del presente); il film ha una qualità davvero unica: esce di corsa dalle scene, togliendole di mezzo in una raffica di sangue, disperazione e viscere (anche simboliche). Le abbandona con una velocità davvero strabiliante. Si percepisce che Roy e Rocky (la coppia Foster-Fanning è strepitosa) hanno un desiderio febbrile, di una bellezza un po’ patetica, a basso costo e in fondo (in)sopportabile. Ma non possono sognare perché sono orfani. Degli affetti, dei paesaggi assolati del Texas e colmi di malinconia.