La superficie dell’acqua in Assassinio sul Nilo di Kenneth Branagh

La vicenda è nota. L’austera regina del giallo classico, quello che non ha età e neppure confine, né tempo, dimorando in un intoccabile olimpo letterario, questa volta rinchiude i suoi personaggi dentro lo spazio di un sontuoso battello in viaggio sul Nilo per soddisfare le voglie della luna di miele di Lady Linnet Ridgeway (Gal Gadot), fresca sposina di Simon Doyle (Armie Hammer). Una serie di delitti si consumeranno sul Karnak e tutti gli ospiti, affatto benevoli con la padrona di casa, verranno sospettati. La navigazione si fa perigliosa e sarà l’ineffabile Hercule Poirot, invitato anch’egli, con i suoi baffi curati in una complicata foggia a ventaglio, a sciogliere il mistero e inchiodare chi dei delitti si è macchiato. Assassinio sul Nilo, oltre ad essere tra i libri più famosi di Agatha Christie, è stato, prima di questo di Branagh, anche un delizioso film di John Guillermin con il più stropicciato Peter Ustinov a vestire i panni del sagace Poirot, ruolo qui invece riservato allo stesso Branagh. Reduce dal precedente Assassinio sull’Orient Express, tratto sempre dalla stessa Christie – in attesa del suo Belfast quasi doveroso per un regista irlandese di nascita e di temperamento – questa seconda riduzione del racconto nato dalla fantasia della scrittrice inglese, dopo il lungo parcheggio causato dal covid, oggi, quando pare che la morsa si sia allentata, arriva la distribuzione in sala.

 

 

Un incipit estraneo al racconto getta una luce originale sul misterioso investigatore belga, protagonista di molti romanzi della scrittrice, e ci introduce, in un bianco e nero levigato e con una sequenza che ricorda il 1917 di Sam Mendes, nelle cupe atmosfere della Prima guerra mondiale. Un incipit che serve solo a far comprendere che il mal d’amore è un cruccio per il sapiente investigatore. Il racconto prende avvio e con un atteso salto temporale le immagini ci porteranno nella Londra degli anni ‘30 in uno dei tanti locali dove si sperimentano i nuovi ritmi americani e dove Poirot può dare sfogo alle sue manie gastronomiche. Farà la conoscenza di Lady Ridgeway, non ancora sig.ra Doyle e dello stesso Simon Doyle e della sua fidanzata del momento Jacqueline de Bellefort (Emma Mackey), ma anche di Salome Otterbourne (Sophie Okonedo), che canta divinamente il blues, e della figlia-manager Rosalie Otterbourne (Letitia Wright), che la accompagna suonando il pianoforte. Da qui all’Egitto il passo è breve e più tardi sulla spianata delle piramidi, in un paesaggio idilliaco e pittoresco, incontrerà il suo amico Bouc (Tom Bateman) già presente nel precedente Assassinio sull’Oriente Express e la madre Euphemia (Annette Bening), acida pittrice della domenica che si diletta a ritrarre i meravigliosi scenari dell’immortale Egitto, che ingaggia Poirot per scopi personali. La crociera prende il via e la regia di Branagh ci intrattiene lungamente con la preparazione dell’escalation omicida alla quale si arriva un po’ stanchi.

 


 
Nella logica della scrittrice l’incalzare dei fatti è il cuore del racconto, ma qui tutto sembra sacrificato da una sceneggiatura che dilata troppo, con l’effetto di un calo di tensione poco adatto alle atmosfere del giallo e alla stessa natura del soggetto. Il metodo Poirot non sembra valorizzato e solo a tratti la sua ironia condisce la vicenda, ricca di omicidi che si consumano nel piccolo recinto del pur lussuoso Karnak che naviga placido sulle acque elettroniche di un Nilo ideale. Branagh lavora molto su un’estetica fortemente contrassegnata da una levigatezza dell’immagine, una laccatura che sa di eccesso è realizzata sicuramente con un apparato digitale di altissima qualità, ripetendo – ma era naturale – l’operazione già riuscita con il suo precedente film tratto dal romanzo della scrittrice inglese. Ma Assassinio sull’Orient Express sapeva conciliare la ricerca di una cura dell’immagine come ulteriore contributo ad una confezione che guardava con maggiore adesione alla tensione che anima il romanzo, in questo nuovo lavoro di adattamento si sceglie la strada descrittiva, indugiando sulle atmosfere d’ambiente, su quell’estetica lucida e riflettente che assorbe lo sguardo, ma lascia il racconto in superficie, senza peso, neppure quello dell’anima. Branagh condensa solo nella parte finale l’accumulo della tensione, diluendo eccessivamente in quelle relazioni tra personaggi, perduti tra pettegolezzi e aspirazioni, gran parte del tempo disponibile e lo spettatore, stanco del lucido della lacca che risplende al sole, arriva senza interesse ad un finale, che d’altra parte è già stato già da prima di qualsiasi riduzione cinematografica, annunciato. Curatissimo nei costumi e con alcune invenzioni da considerarsi licenze poetiche rispetto al racconto – ad esempio la scrittrice Otterbourne diventa cantante di blues tanto affascinante da catturare l’interesse dell’investigatore o dell’amore saffico tra Marie Van Schuyler e la signora Bowers, che si presenta come sua infermiera – idee che non incidono sulla trama, ma non bastano a salvare dalla insinuante noia. Il film di Branagh non sa mantenere le promesse che il titolo e il suo regista annunciavano. Attendiamo ora il suo Belfast per una narrazione più vitale, vigorosa e personale.