Tra la sospensione del tempo e il silenzio del dolore: come sempre in Tsai Ming-liang il dialogo tra la dimensione spirituale e quella fisica passa attraverso la definizione immanente dell’esserci, la quadratura del cerchio esistenziale nelle volumetrie degli spazi di vita. Il suo esercizio di cinema era in Concorso a Berlino 70 e si chiama Rizi, ovvero Days: come sempre costruito addosso a Lee Kang-Sheng, al suo corpo filmico fatto di carne e di tempo, di presenza e di astrazione. L’attore e il regista taiwanesi sono una inalienabile coppia che documenta la vita dentro lo schermo, il dialogo ininterrotto di una trasfigurazione reciproca, che scorre al ritmo delle variazioni esistenziali del loro appartenersi. Stray Dogs, sette anni fa, è stato il punto di arrivo narrativo del cinema di Tsai Ming-liang, che da allora smaterializza il suo filmare in installazioni documentive e in frammentazioni contemplative, che dicono immediatamente il corpo e il tempo del suo attore feticcio. La presenza scenica di Kang-Sheng, la sofferenza del suo corpo, segnato da un acuto dolore alla schiena già raccontato in questi ultimi anni da Tsai Ming-liang, diventano qui la materia di una triangolazione che proietta il rapporto filmico ed esistenziale tra l’attore e il regista su una nuova presenza, quella di Anong Houngheuangsy, ventottenne laitiano che vive a Bangkok tirando la giornata come cameriere, conosciuto per caso dal regista e trasformato nel coprotagonista di questo suo nuovo film. Una sorta di alter ego di Lee Kang-Sheng, corpo della quieta solitudine quotidiana che si offre alla narrazione del silenzio nel controcampo a distanza con il corpo feticcio dell’attore. Da una parte c’è Lee Kang-Sheng, le sue giornate in ascolto della pioggia, nella pazienza dell’agopuntura, nel deambulare claudicante, dall’altra c’è il giovane Anong, che nella serenità della sua casa cucina i piatti laotiani e vende i noodles in un ristorante di strada a Bangkok.
Tsai Ming-liang li fa trovare come fossero materia filmica, li spinge uno tra le braccia dell’altro, li affida a un breve incontro che si realizza nel momento di intimità (un massaggio, l’amore) in una stanza d’hotel. Il carillon che Kang-Sheng alla fine regala a Anong è il sigillo di un dialogo sentimentale intransitivo, il passaggio di testimone di una solitudine che resta la materia più concreta e autentica del filmare di Tsai Ming-liang. Rizi è un film che lavora sulla fluidità volumetrica delle esistenze, sul rapporto tra pieno e vuoto, dentro e fuori, contatto e isolamento: il lungo, silenzioso incipit su Kang-Sheng che contempla da dietro la finestra chiusa la pioggia che cade, è un vero e proprio teorema che racchiude l’intero film. L’acqua che piove fuori e quella che vibra nel bicchiere sul tavolo, il suono della pioggia e il silenzio della stanza, la volumetria d’interno e l’en plein air del giardino… In mezzo, a dividere i due ambienti, la trasparenza del vetro, che è ovviamente contigua alla trasparenza del corpo filmico di Lee Kang-Sheng. La prospettiva possibile è quella tracciata dal nuovo corpo filmico, quello di Anong: come si legge nella biografia pubblicata sul pressbook del film, dopo aver accettato nel 2018 l’offerta di Tsai di apparire in Rizi “now, he is an actor”.