La vertigine dei volumi: a Venezia81 The Brutalist di Brady Corbet

Materia grezza, questione di volumetrie che esprimono la loro nudità: The Brutalist di Brady Corbet (in Concorso a Venezia81) è uno di quei progetti che cercano se stessi nelle proprie dimensioni, si nutrono delle architetture che li sorreggono e in qualche modo rischiano di surclassare il loro stesso portato. Dieci anni di preparazione, girato in VistaVision 70mm (formato in cui è stato proiettato a Venezia, purtroppo con esiti un po’ mortificanti), 215′ di durata compreso l’intervallo di 15′ cronometrati… Adrien Brody è László Tóth, immaginario architetto ungherese ebreo che riemerge dai campi di concentramento e letteralmente nasce al film in un incipit filmato quasi all’impronta, in una soggettiva che lo getta nella vertigine di un nuovo presente: la Statua della Libertà che incombe nella luce del cielo sulla nave che lo sta portando a Ellis Island, l’arrivo negli Stati Uniti dove ad accoglierlo c’è un cugino. Siamo nel 1947 e la Storia vista dall’America è una scena di possibilità offerte alla necessità di dimenticare il passato: in Ungheria László Tóth era un architetto famoso, ora è un uomo che cerca di ricongiungersi alla moglie Erzsébet (Felicity Jones), bloccata assieme alla nipote, che cresce come una figlia, dall’altra parte dell’Oceano. Un lavoro per il cugino mobiliere a New York lo porta in casa di Harrison Lee Van Buren, uno stravagante magnate, che, venuto a conoscenza del suo prestigioso passato in Ungheria di architetto brutalista, lo prende sotto la sua protezione, lo aiuta a ricongiungersi con la moglie e la nipote e soprattutto gli commissiona un mausoleo da erigere sui suoi terreni in memoria della moglie: una biblioteca che, col coinvolgimento di finanziatori locali, diventa anche altro e, soprattutto, ingloba una chiesa cristiana…

 

 

L’impasto di elementi messi in campo da Brady Corbet in questo suo progetto ha tutta l’ampiezza di tali premesse, un faccia a faccia tra vincitori e vinti, tra potenti e sottomessi che è poi tutta una questione di “visione”, di confronto tra modi di vedere e concepire il mondo. Se l’architettura è l’arte di dare forma ai volumi, concependo spazi per formare la realtà e abitarla, quello che The Brutalist racconta sulla scena del dopoguerra americano è il confronto tra le visioni opposte di un architetto ebreo e di un magnate della maggioranza WASP. Il che mette in gioco argomentazioni storiche, sociali, politiche che ruotano attorno al perenne tema del rapporto di potere tra l’Artista e il Principe, il quale, incapace di creare, si illumina di magnanimità nella misura in cui richiede a chi crea lo sforzo di farsi in qualche modo possedere, di soggiacere al suo potere. Tutta la seconda parte del film, infatti, verte proprio su questa dimensione, perché oppone al ricongiungimento tra László e Erzsébet e alla posa in opera del progetto, il confronto con il tema del compromesso che l’artista deve accettare pur di vederlo realizzato. In questo si spinge in una riflessione che coinvolge la cultura ebraica, l’accettazione e l’integrazione degli ebrei nella società americana, la nascente tensione sionista.

 

 

Tutti argomenti che creano per il film una tessitura complessa e ampia, da cui però non risulta in definitiva un affresco capace di illustrare approfonditamente ogni elemento della scena. Resta soprattutto l’ossessione del protagonista, il suo bisogno di affermare se stesso sopra ogni cosa, l’incapacità di sfuggire alle proprie ossessioni come alla dipendenza dall’oppio. Il personaggio di Van Buren (interpretato da Guy Pearce con una prestazione plastica e altisonante) ha le stimmate wellesiane di un Kane in sedicesimo, anche se poi l’intero progetto di Brady Corbet, per ampiezza storica e tensione rappresentativa, sembra piuttosto cercare un altro modello wellesiano, quello dell’Orgoglio degli Amberson. In definitiva, The Brutalist è uno di quei film che bruciano le proprie ambizioni e scaldano il cuore, perché ti pongono dinnanzi a una progettualità cinematografica chiaramente dettata da motivazioni piene, potenti. Ma è anche un’opera più ambiziosa che riuscita, confermando in questo l’impressione che Brady Corbet ha lasciato anche con le sue opere precedenti, Vox Lux in particolare. Resta ad ogni modo uno dei film più intensi e interessanti del Concorso di Venezia 81, capace di elaborare una visione, un’idea e una forma per un cinema che non rinunci alle sue dimensioni. Puntando anche sull’interpretazione limpida, vissuta e articolata di Adrien Brody.