L’amore che potrebbe rendere felici: Il bambino nascosto, di Roberto Andò

Napoli è una grande città. Ma la Napoli di Gabriele Santoro, professore di musica e uomo colto e solitario che vive in un quartiere dove la camorra spadroneggia, è di piccole dimensioni, un caseggiato, una porzione di cortile sbirciato dalla finestra, le scale dello stabile in cui abita, il suo appartamento. È in questi spazi ridotti che la vita di Gabriele, omosessuale celato al mondo e figlio di un uomo saggio e altrettanto colto dal quale si è allontanato, vive la sua vita scandita tra le lezioni al Conservatorio dove insegna, la preparazione della cena, la lettura e l’ascolto della musica. La Napoli di Gabriele è asfittica, ridotta e quasi claustrofobica. La vita di Gabriele è altrettanto povera di stimoli e anche la sua relazione con il compagno più giovane è in crisi. Il film di Andò, passato fuori concorso all’ultima edizione del Festival di Venezia, è tratto da un romanzo dello stesso regista e certamente c’è una dose di rischio nel mettere in scena un proprio romanzo con un’operazione che potrebbe apparire come una eccessiva considerazione di sé e delle proprie opere. Sotto altro profilo, invece, la lettura in chiave cinematografica del proprio racconto diventa terreno sul quale si è già lavorato con altri strumenti e quindi conosciuto, e per altro verso, in chiave più emozionale, una comfort zone dalla quale evidentemente si fatica ad uscire. Fatto sta che il regista palermitano, che evidentemente conosce le dinamiche di una città difficile come Napoli, riversa in questo film, attraverso il personaggio di Gabriele, quel desiderio di ostracismo nei confronti del mondo di fuori che si pone in essere chiudendosi, come il protagonista, in un volontario isolamento, nascosto al mondo, e tutto, in verità, resta improduttivo di effetti e incapace di generare prospettive e nuovi orizzonti.

 

 
Per Gabriele arriva Ciro (Giuseppe Pirozzi) a scombinare le cose. Lo scugnizzo figlio di malavitosi del quartiere è sparito da casa, fuggito per circostanze che restano oscure allo stesso Gabriele che se lo ritrova in casa, improvvisamente, a rompere la sacralità e la ritualità dei gesti che accompagnano le sue ore. È così che Ciro lentamente, con la gradualità che richiede la conoscenza, rompe il grigiore monastico di Gabriele offrendogli un’opportunità, una via di fuga per un’azione che non sia la monotonia routinaria della sua vita, di quella vita che “pensa solo ai cazzi suoi”. Gli spazi restano quelli di una prigione anche per Ciro, che si muove libero tra le mura domestiche, ma poi è costretto a rifugiarsi nello spazio angusto di un armadio o nel cofano dell’automobile di Gabriele prima che l’orizzonte si apra, forse per sempre. Andò dirige un film intimista, che va in porto anche grazie al determinante apporto di Silvio Orlando, in questo periodo tornato in grande spolvero sulle scene, già con Ariaferma – altro film di ristretti e immobili spazi, in cui più forte si sente lo sferragliare del tempo tra le segrete della isolata prigione – e ora con questo film. Un intimismo scorbutico quello raccontato in questo film.

 

 

Al di là del racconto, infatti, ciò che evidentemente costituisce un peso mai confessato per Gabriele è quel segreto desiderio di paternità che Ciro sembra acquietare, sembra dovere soddisfare. Il suo rapporto con il ragazzino è istintivamente paterno e l’incapacità di combinare la segreta omosessualità che vive e il desiderio inconfessato costituisce il nodo centrale del film. La vita di Gabriele soffre di un’asfissia naturale nella città che non sa vivere, che vive di soppiatto, quasi clandestinamente.  Il bambino nascosto racconta un altro pezzo del disagio del vivere, che a volte non sa celare, cadendo nell’errore (perdonabile) dell’eccessività del dimostrare (la ricerca delle armi nel cimitero se fosse rimasta nell’area del non raccontato avrebbe conferito maggiore fascino al film). Resta di sicuro questo sguardo intimo su una solitudine che dipende da un conflitto con il mondo, un conflitto che si esprime con le armi dell’accettazione di regole – quelle dettate dal fratello magistrato in un turbolento pranzo a base di pesce – che Gabriele non vuole accettare. Ciro è la pietra d’inciampo, è l’errore di programmazione del software che determina la vita solitaria, trasformandosi in quell’amore che potrebbe anche rendere felici.