Le donne non si piegano: La testimone – Shahed di Nader Saeivar

Con coraggio disarmante, il cinema iraniano continua a sussurrare al mondo che la propaganda statale non è veritiera, che le voci critiche esistono, eccome se esistono, anche se faticano a farsi sentire, mentre il dissenso viene represso nel sangue. Ma comunque non tacciono, queste voci prevalentemente femminili, ed è il cinema che le diffonde e alimenta forse più di ogni altro mezzo, smentendo di fatto l’obsolescenza comunicativa che gli viene contestata da più parti e la presunta incapacità di documentare efficacemente il reale. La testimone (Shahed), vincitore del Premio del Pubblico Orizzonti Extra all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, è un film potente e libero, a dispetto della censura del regime teocratico: non per caso porta il sigillo di Jafar Panahi, cineasta più volte imprigionato per reati di opinione (l’ultima, nel luglio del 2022, gli ha impedito di presenziare al Lido, dov’era in concorso il suo Gli orsi non esistono), che stavolta non firma la regia (lo fa il suo assistente, Nader Saeivar), bensì la sceneggiatura (scritta a quattro mani con Saeivar medesimo) e il montaggio. La vicenda ruota intorno a Tarlan (Maryam Bobani), volto grifagno che pare scolpito nel legno e carattere fiero: è una docente di storia in pensione, con un passato da attivista e da sindacalista nella scuola, che le ha causato non pochi problemi con le autorità, perfino il carcere. Nel suo presente, sebbene non faccia mancare supporto e consigli alle colleghe in lotta per condizioni migliori, incidono certo di più le preoccupazioni per la prole. Il figlio biologico è un imbelle lamentoso, finito dietro le sbarre per i debiti contratti con un’attività imprenditoriale che non aveva le qualità per portare avanti; la figlia adottiva, Zara, insegna invece danza con una grazia che inorgoglisce la madre putativa, scatenando però la rabbia del marito (personaggio intoccabile, in virtù di uno stretto legame professionale con l’apparato militare), il quale ne disapprova anche il rifiuto del velo e lancia infine un ultimatum alla “suocera” affinché la consorte intenda: “Zara non deve far altro che obbedirmi.

 

 
Se mi obbedisce, avrà una bella vita”. Evidentemente l’idea che i due hanno di “bella vita” non coincide e infatti la situazione precipita oltre ogni aspettativa. Allora Tarlan si ritrova da sola a reclamare giustizia, scontrandosi con un sistema che è discrezionale a senso unico e minaccia di stritolarla a ogni passo, ponendola continuamente di fronte alla sua condizione di reietta, di donna  “marchiata”, che ha segnato le sorti stesse della sua famiglia, come il figlio le rammenta con acredine, al contempo scordandone la pervicacia nel rimediare il denaro che l’ha tirato fuori dai guai. Ma Tarlan, abituata a un’esistenza controcorrente, non si arrende, incurante delle conseguenze.  Un’accusa diretta e insieme simbolica, quella di Saeivar e Panahi, che non nascondono la diffusa adesione che esiste nella società iraniana – sia per convinzione o per opportunismo – alle odiose prescrizioni “morali”, in primis il velo: c’è in tal senso una sequenza esemplare, in cui Zara, paralizzata dalla paura e col volto tumefatto dopo una lite col marito, è in auto a capo scoperto e viene ammonita da una passante, che nonostante i tentativi di rabbonirla da parte di Tarlan, le commina una “moral suasion” come fosse una sorta di concessione caritatevole, assicurandole che alla prossima infrazione procederà alla denuncia. Eppure la figlia di Zara è renitente al velo, con estrema naturalezza: ella appartiene a una generazione che non china il capo; e non per caso è suo il solitario ballo finale, che apre ogni porta e resiste a qualunque tentativo di oscuramento, inoltre conferendo una traiettoria circolare al film (aperto da una magnifica danza collettiva), per  sbattere in faccia a un potere che giustifica la repressione con la volontà di Dio, l’inarrestabile sete di libertà incarnata da donne che non si piegano. Anche se nei titoli di coda i richiami di cronaca strozzano il sorriso e la realtà si impone implacabile, incupendo il sogno.