Le molte convivenze in L’appuntamento di Teona Strugar Mitevska

Ci sono due diverse convivenze che coesistono nel film della regista macedone. La più evidente è quella della memoria, tema che per quanto ricorrente e variamente declinato, resta in L’appuntamento imprinting genetico e materia che diventa fluida nel proseguire della storia, atteggiandosi come necessità di liberazione e come dovere d’espiazione. È con la memoria della guerra che bisogna convivere nella Sarajevo del 2023, ma c’è una convivenza fisica tra gli appartenenti alle due parti nemiche che diventa il secondo tema del film, tutto fondato su una elaborazione di un lutto generazionale che si addensa nel personaggio di Asja, scampata per miracolo alla morte la sera del capodanno 1993 quando Zoran, il serbo bosniaco che lei incontra in un’agenzia che organizza appuntamenti per chi cerca l’anima gemella, all’epoca combatteva con le milizie contro i bosniaci e sparò contro la sua finestra con l’intenzione di uccidere. È su queste due tensioni esistenziali che condizionano la vita di Asja che L’appuntamento indaga con l’introspezione necessaria a scandagliare i mutevoli umori della sua protagonista durante la giornata trascorsa in questo alquanto surreale luogo nel quale si consuma un rito collettivo che dovrebbe essere privato, ma che riflette, attraverso una metafora abbastanza evidente, una certa nudità dei sentimenti che la guerra passata e solo apparentemente dimenticata e l’innamoramento manifestano in maniera piena e totale, tradotto poi nel dire comune in quel in guerra e in amore tutto è permesso. Ma forse non è poi così vero che tutto sia permesso né in guerra, né in amore e se la guerra soprattutto è fratricida, combattuta tra conviventi. Si ridefinisce in questa insanabile lesione che il conflitto produce anche lo sguardo sul futuro nelle difficili prospettive del dopo.

 

 

Il desiderio dello scrollarsi di dosso il dolore trattenuto, quella sorda forma di odio per chi ha provocato sofferenze resta il tema quasi taciuto per Asja, risorta alla vita dopo il coma provocato dalla ferita. Anche il film, che inizia come una possibile commedia romantica, sembra senza soluzione di continuità scivolare verso un dramma personale che si fa doppio, preannunciato dall’incipit del film con una nuca inquadrata in primissimo piano che abbassandosi scopre la città e Asja che passa in mezzo ai mucchi di sabbia del cantiere e il quartiere in ricostruzione. In questo quanto mai sintetico avvio del racconto i protagonisti della storia: i due personaggi e la città come organismo vivo e fatto di viventi, corpo che respira come sa raccontare la camera fissa del finale con un canto quasi notturno che accompagna il respiro di Sarajevo.   

 

 

Dopo Dio è donna e si chiama Petrunya Teona Strugar Mitevska torna su una storia che vede protagonista una donna, ma mentre in quel film il tema di fondo era quello di una difficile emancipazione, qui il tema è quello di una infelicità segreta di cui bisogna liberarsi per quel diritto alla felicità da più parti rivendicato. Di nuovo la convivenza di due sentimenti uguali e contrari per Asja e Zoran entrambi infelici per le medesime ragioni, ma opposte. Per Asja liberarsi dal dolore dei ricordi che affollano la sua mente, dando corso al flusso di coscienza senza freni dopo il pranzo, e liberarsi dall’altro dolore, quello della colpa, per il fragile Zoran. Paradossalmente è proprio l’elaborazione del dolore stratificato negli anni ed elaborazione di un giovanile e per questo più violento senso di colpa a unire i due protagonisti in una possibile nuova e sperimentabile forma di solidarietà, dopo le escandescenze di lei e la supina accettazione di lui nella sequenza forse più teatralmente impostata di tutto il film in cui la ricerca dell’equilibrio tra performance e verità è determinante. Una solidarietà segreta e forse anche salvifica, incomprensibile e possibile come una nuova versione della sindrome di Stoccolma. Laddove, in questa situazione, la ragione risiede piuttosto nel riconoscere nuovamente l’antica fratellanza con chi si è rivelato nemico. È forse questa l’intuizione più sottile della regista e d’altra parte l’unica che può riconciliare dopo molti anni le opposte fazioni un tempo in guerra.   

 

 

Il film, già in lizza per Orizzonti a Venezia 2022, oggi in distribuzione nelle sale italiane, conferma un po’ impressioni che ci si era fatti già da tempo su questo cinema dell’area balcanica, nel quale l’anima fantasiosa di quelle culture si stempera nell’irrisolta questione religiosa che non è misticismo osservante, quanto, piuttosto una questione di appartenenza etnica, di una cultura orientata e a tratti radicale che smette di essere ricerca di una possibile perfezione per tradursi in antagonismo nei confronti della diversità religiosa. La Sarajevo ante guerra era diventata la città simbolo di questa convivenza di differenze, la guerra disastrosa e profondamente lacerante ha colpito in special modo questa città, che oggi, con fatica e immaginiamo con quella voglia di vita che viene dopo ogni lutto, riprende il suo respiro, accoglie le differenze e come Asja sembra guardare di nuovo al proprio futuro.