Su RaiPlay Taxi Teheran di Jafar Panahi e l’esilio impossibile del cinema

TAXI_TEHERAN_Jafar_Panahi.1.D.RL’esilio impossibile dal cinema subìto da Jafar Panahi sconta la sua ventennale decorrenza sbeffeggiado con semplice poesia il rigore dell’interdizione. Dopo This Is Not a Film e Closed Curtains, Taxi Teheran chiude quella che sarebbe bello potesse essere solo una trilogia dell’esilio in patria (nuovi corsi internazionali, chissà…) aggiudicandosi l’Orso d’Oro alla Berlinale e trovando un varco nella distribuzione italiana. Cinema clandestino, ovviamente, che trova la sua visibilità internazionale nell’invisibilità della macchina cinema: il non vedere delle autorità iraniane che guardano altrove (vien da pensare ad Argo…), la miniaturizzazione del filmmaking, l’immaterialità del supporto digitale che nessuna dogana riesce più a trattenere…

 

TAXI_TEHERAN_Jafar_Panahi.4.D.R

 

Taxi Teheran, dunque: il non-luogo è quello classico dell’ex nuovo cinema iraniano, l’abitacolo di un’automobile, l’angusto spazio in transito nella realtà, che attraversa strade e mostra il mondo al di là del parabrezza mentre ascolta voci e storie della vita. Panahi utilizza lo schema forzandolo nella tensione rappresentativa della parabola: non è certo un documentario, Taxi Teheran, il recitato è palese tanto quanto il gioco del regista stesso che, coppola in testa, finge di essere un tassista e viene puntualmente riconosciuto dai passeggeri, che carica a bordo allo scopo dichiarato di riprenderli. La successione di scene disloca il cameracar sulla virtuosa carrellata di caratteri che rappresentano il rapporto tra la verità ideale, quella sociale e quella privata dell’Iran: la leggerezza di Panahi ha qualcosa di sorprendente, svilisce il peso stesso della sua condizione nella formula del filmare che libera lo spirito. Si incede nella commedia con la successione, nel campo ristretto del taxi (unico e solo P.O.V. concesso al film), di una serie di personaggi che incarnano l’interfaccia tra l’Autore, il suo mondo attuale e la realtà iraniana: c’è la nipotina da prendere all’uscita da scuola, che fa la civettuola con la camera; c’è il trafficante di DVD pirata che smercia film occidentali proibiti e si propone come distributore “indipendente” di quello che Panahi sta girando;  c’è l’uomo ferito che, durante la corsa in ospedale, è angosciato dall’idea di morire senza fare testamento in favore della sua compagna ripudiata dalla sua famiglia; c’è il battibecco tra due voci di popolo pro e contro il rigore del regime; c’è Nasrin Sotoudeh, avvocato dei diritti civili interdetta dall’esercizio della sua professione, l’unica a metterci il suo nome in un cast forzatamente di ignoti, che fa testimonianza di militanza e solidarietà portando nel taxi del regista il suo discorso e le sue rose; e c’è la coppia di anziane sorelle che ha fretta di liberare nel fiume un pesciolino rosso, in onore di un privatissimo rito di buon auspicio e lunga vita… Sono loro, con la loro surreale presenza, il MacGuffin panahiano che libererà il cinema stesso in un magnifico e furtivo finale, piccolo ma vero momTAXI_TEHERAN_Jafar_Panahi.5.D.Rento di lirismo politico, di cui unico testimone sarà proprio una delle rose lasciate al regista da Nasrin Sotoudeh…

 

Il film è di per sé lieve, e stupisce per il sorriso che si porta dentro e sul viso, vera sfida alla gravità di un potere ottuso che crede di poter trattenere la vita, il pensiero e tutto ciò che è filmabile. Della possibile trilogia, Taxi Teheran è l’opera più libera, giungendo al culmine di un percorso che dal chiuso delle case-prigioni del regista che si erano offerte realmente e metaforicamente come set di This Is Not a Film e Closed Curtains, deborda ora nel flusso di una vita che scorre in strada senza troppe preoccupazioni simboliche. Certo, a uno sguardo obiettivo il film, nella sua stessa struttura, non manca di una forma didascalica, ma la leggerezza di un divertito lirismo e la sostanza di una poetica resistente ci sono tutte. E non è poco.