L’horror degli scaffali in fondo: Malignant, di James Wan

Una certa pulsione blockbuster aveva serpeggiato nascosta fin dagli esordi all’interno della filmografia di James Wan, magari anche per effetto della particolare natura del cinema australiano, che nella contaminazione tra “alto” e “basso”, popolare e exploitation si è sempre mosso con scioltezza. Sta di fatto che, già nei finali particolarmente spettacolari dei due Conjuring sembrava scriversi un destino inevitabile, che faceva vedere l’approdo ai successivi Fast & Furious 7 e Aquaman come una chiara lettera d’addio ai generi più di nicchia. E invece, con una torsione che riscrive ancora una volta le coordinate, James Wan non solo torna alle origini, ma ci regala il film più folle e libero della sua filmografia. Nelle palesi intenzioni dell’autore, Malignant vuole rivitalizzare “quei film degli scaffali in fondo”, con chiaro riferimento ai settori più “nascosti” delle videoteche, in cui si annidavano opere assolutamente sgangherate ma spesso vitalissime e diventate col tempo di culto. Il presupposto, ibridato con la contaminazione di stili tipicamente australiana non poteva che essere significativo e per questo Malignant si offre nel segno di una sintesi tra fantascienza, ghost story, slasher e Giallo all’italiana! Sin dalle prime battute in cui si consuma da un lato un folle esperimento medico andato a male e poi il drammatico evento di Madison, che perde il figlio che porta in grembo dopo un violento litigio con il marito alcolizzato, il film dimostra una natura duale destinata a trovare linfa nel suo prosieguo. Il coniuge viene infatti assassinato da una figura nerovestita con cui Madison instaura subito dopo un legame psichico che la porta a “vedere” a distanza i successivi delitti del killer. Il tutto porterà a un’indagine che farà luce sui segreti nascosti nell’infanzia della protagonista.

 

 

Wan iscrive dunque il precipitato drammatico della storia nella carne dei personaggi, secondo un modello che rievoca le deliranti forme di un Frank Henenlotter, mentre la legnosità dei dialoghi sembra sottolineare la consapevolezza autoironica con cui l’autore tratta un soggetto destinato ad alzare sempre più la posta in gioco in una escalation dell’assurdo. La storia, non a caso, si articola attraverso un continuo doppio passo che pone in essere una realtà “multipla” in cui spazi, tempi e personaggi si rispecchiano e confrontano: si va dalla casa di Madison che trascolora negli ambienti in cui si consumano i delitti, al teatro stesso offerto dalla città di Seattle, divisa fra una parte “di sopra” e le vestigia sepolte nel sottosuolo in cui si articolano alcuni spettacolari attacchi della misteriosa creatura. Quest’ultima diventa ben presto il frutto di una narrazione coerente nella sua molteplicità di spunti, sintetizzata dalla tecnica stessa con cui è stata creata (un mix di stuntmen, effetti visivi e marionette) e dalla resa delle sue imprese: le scene delittuose, infatti, sono coreografate con un gusto scenico di chiara matrice argentiana, per l’uso di spazi, colori e armi – riteniamo anzi che i modelli siano da cercare più che altro nei cloni dell’autore romano, che esacerbavano la valenza iconica di scenari e killer, si pensi ad esempio a certe pellicole di Emilio Miraglia o Dario Piana. Su questa base si innesca una componente action che vede il mostro esibirsi in acrobazie e attacchi degni di un kung fu movie anni Settanta/Ottanta.

 

 

La mobilità volutamente “implausibile” del killer esaspera una volta di più il concetto di un corpo horror sottoposto alla trasformazione in altro da sé, che è poi quella applicata da Wan su una narrazione che tiene insieme la natura angosciante dei primi Insidious e il divertimento sfrenato che potrebbe accompagnare le imprese degli eroi di Fast & Furious. In tal modo, l’intento “da scaffali in fondo” nasconde in realtà un’operazione molto consapevole e teorica rispetto allo stesso percorso filmico dell’autore. È come se Wan, con questo film, volesse rovesciare il temuto allontanamento dall’horror per ribadire che, invece, il passaggio all’action fosse stato dettato non tanto da disaffezione verso le pellicole d’esordio, quanto dalla voglia di acquisire un bagaglio da sfruttare una volta “tornato a casa”. Il meglio di entrambi i modi si palesa quindi sotto gli occhi dello spettatore, in una vertigine che è sintesi dei vari rispecchiamenti messi in scena dalla storia. Malignant diventa così un sorprendente film di un autore “liberato”, che nel realizzare la sua lettera d’amore alle derive più assurde dell’horror, fa perfettamente propria la massima di Picasso secondo la quale ci vuole molto tempo per poter infine diventare giovani.