L’horror fermo nello spazio: La Casa – Il risveglio del Male di Lee Cronin

Una delle caratteristiche vincenti della saga di Evil Dead è la natura labirintica della materia attraverso cui articola l’orrore, che parte da uno spazio unico per poi moltiplicarlo con un dinamismo che è al tempo stesso stupefacente e molto naturale. La celebre baita de La Casa è infatti un ambiente unico, capace però di snocciolare in continuazione nuovi spazi senza soluzione di continuità: dalla cantina in cui si trova il Libro dei morti alle intercapedini dei muri da cui i demoni “guardano” i protagonisti attraverso le pendole, agli specchi “liquidi” (quasi dei portali, non a caso verso mondi altri), senza dimenticare ovviamente il bosco all’esterno, che pure ha una rilevanza non da poco nella mitologia creata da Sam Raimi e soci. Basterebbe citare soltanto il folgorante piano sequenza di Ash/Bruce Campbell inseguito dall’entità ne La Casa 2 passando dal bosco alla baita, fino alla ritirata dopo che il protagonista è riuscito miracolosamente a nascondersi, per sintetizzare alla perfezione la potenza vincente del progetto di Raimi. Sarà anche per questo che il segreto della storia sta tutto nell’energia febbricitante con cui cerca di scuotere l’immobilismo cui i protagonisti sarebbero altrimenti costretti dal plot. Ash (e chi per lui) si muove e tanto nello spazio, tallonato dalla celebre “shaky cam”, ma anche nel passato, come ne L’armata delle tenebre (e nei seguiti futuribili mai realizzati e di cui intravediamo un assaggio nel finale alternativo). Era dunque solo questione di tempo perché si prendesse infine il proverbiale toro per le corna e si optasse per la scelta tanto più coraggiosa quanto ovvia (dunque stupefacente eppure molto naturale) di cambiare del tutto la location principale. Niente più baita nel bosco in questo Il risveglio del Male – di cui rimane solo un assaggio nel prologo – e un’azione tutta concentrata in un condominio.

 

 

Restano invece fermi i punti cardine della mitologia, attraverso il libro maledetto che evoca le entità indistruttibili che possiedono i corpi umani, stavolta di una famiglia composta da madre (Alyssa Sutherland, la migliore del cast), sua sorella e tre figli. Il grimorio fa la sua comparsa dopo che un terremoto rivela lo spazio anticamente occupato da un caveau bancario nell’edificio e al posto del vecchio registratore a nastri, la maledizione viene pronunciata attraverso dei dischi in vinile (più al passo con i nostri tempi retro vintage). La possessione della madre scatena un’altra dinamica abbastanza tipica della saga, quella che vede il Male agire in maniera tanto più subdola quanto più cerca di ingannare le sue vittime giocando sulle dinamiche affettive (come tra Ash e la sua fidanzata Linda nel primo film). Il resto lo fa la quantità di sangue generosamente offerta a galloni, ai danni di interpreti stretti fra l’interpretazione attoriale in senso stretto e l’autentica performance fisica da resistenza degna di un reality show estremo. In tutto questo, lo spazio resta l’elemento dirimente per comprendere la funzionalità del progetto e di certo un condominio ne può offrire a sazietà: sebbene non manchino più ambienti, dall’ascensore (che ha un ruolo abbastanza pronunciato) al garage, è curioso comunque notare come Evil Dead Rise resti abbastanza stoicamente interessato a mantenere i suoi protagonisti nella Casa di famiglia, con un curioso effetto di inversione rispetto al prototipo.

 

 

Se in Raimi lo spazio unico si moltiplicava ampliando la “piccola” vicenda tra amici sino a farla apparire come un’avventura di portata “cosmica”, stavolta la storia appare curiosamente tesa a restringerne la portata, risultando abbastanza minimale nel suo complesso. Ci si muove di meno, insomma, e sarà anche per questo che la cifra stilistica del film è data proprio dall’immobilismo cui i figli cedono di fronte alla madre posseduta: tanto Ash e amici correvano, tanto i ragazzi restano lì stolidamente impietriti. Così fa nel suo complesso il film, che cerca di rinverdire i fasti della saga, ma in definitiva gira abbastanza a vuoto e risulta povero di idee in grado di ampliare di nuovo la portata del racconto. Se la prima trilogia aveva già lasciato intravedere la volontà di Raimi di muoversi da un contesto ultra-indipendente a uno più strutturato, con Lee Cronin la saga giunge quindi al definitivo approdo a un mainstream nel complesso abbastanza industriale, anche se innaffiato di tanto sangue.