L’identità e la visione: Ultima notte a Soho, di Edgar Wright

La carriera di Edgar Wright sarebbe un racconto perfetto per uno dei suoi film, in cui i personaggi trovano sé stessi sempre nel confronto con la grande tradizione6 cinematografica del passato. Sia il western del fondativo A Fistful of Fingers, lo zombie movie di Shaun of the Dead, l’action di Hot Fuzz o la fantascienza di La fine del mondo, in tutti i casi abbiamo a che fare con figure disallineate, che non sembrano centrare perfettamente l’iconografia di riferimento e che proprio nello scarto fra la tradizione e la propria intima percezione del mondo, aprono quei territori in grado di definire una personalità. Un po’ come è accaduto a questo timido giovanotto del Dorset, esordiente a soli 21 anni e poi diventato una voce originale, fautore di pellicole che sono dei perfetti compendi dei suoi generi preferiti, ma anche molto altro, capaci perciò di dare vita a storie fresche e coinvolgenti. Accade lo stesso anche in Ultima notte a Soho (presentato a Venezia 78) dove Ellie, giovane protagonista di campagna che muove nella grande città, prende casa nel West End per diventare una fashion designer, salvo poi essere sopraffatta dalle visioni oniriche in cui rivede Sandie, coetanea durante i meravigliosi anni della Swinging London. Una ragazza che sognava il successo, ma che invece ne ha subito la natura predatoria, creando così ancora una volta quello scarto tra la realtà e la sua percezione che è tipica del perfetto personaggio di Wright.

 

 

L’autore, dal canto suo, alza stavolta la posta in gioco, attraverso un andirivieni temporale che è anche un gioco di specchi. Per questo lo spettacolo ammicca innanzitutto alla sontuosità dei grandi musical classici – l’idea originaria era anzi di utilizzare addirittura solo lo score nelle parti ambientate nel passato, quasi come fosse il mondo visto da Baby Driver. Però, poi, mentre ricostruisce gli ambienti del Café de Paris, mentre trascina Ellie e Sandie in una vertigine di scambi in cui la prima sembra subire il destino della seconda, salvo poi renderle effettivamente giustizia, Wright cerca lo scarto definitivo che metta in crisi il sogno e la realtà. In questo modo, Ultima notte a Soho ha davvero il sapore di un’occasione finale e incarna il desiderio di rivivere i fasti di un’epoca resa mitica dalla memoria e che si offre con la generosità di un’estetica dell’accumulo. Un po’ musical, un po’ racconto di scalata al successo, un po’ thriller di derivazione quasi argentiana, è un caleidoscopio di sequenze forti e che denotano grande passione per la materia narrata. Ma è anche un racconto che cerca una direzione differente, che sveli il velo un po’ ipocrita delle tante storie dimenticate di ragazze che non ce l’hanno fatta e renda così le visioni di Ellie propedeutiche a una sua più complessa visione generale del mondo.

 

 

È interessante in questo senso il modo in cui Wright articola le sue istanze sulla dialettica dei corpi e il loro confronto con gli spazi: tanto gli ambienti appaiono mitici nella loro grandeur, tanto gli attori faticano volutamente a viverli, ne sono come sopraffatti, emergono nella loro inadeguatezza. I grandi divi del passato (Terence Stamp, la magnifica e compianta Diana Rigg) sono come icone “consumate” dallo spazio in cui si muovono come fantasmi e a cui consegnano i corpi come simulacri di una memoria disumana. E la dicotomia fra Ellie/Thomasin McKenzie e Sandie/Anya Taylor-Joy sembra messa lì proprio per esprimere una crisi e un camminare sul vetro che diventa una tensione costante in tutto il film. Un’opera che ammalia lo sguardo, ma sembra sempre spaventata da ciò che vede, scissa appunto tra la sicurezza con cui Sandie si offre agli occhi dei suoi talent scout (e del pubblico) e lo sguardo più atterrito di Ellie, il suo svegliarsi di soprassalto e quell’agitazione con cui cerca di rimettere insieme i pezzi del passato. Merito naturalmente (e ancora una volta) anche di una grande padronanza del montaggio sonoro e dell’alternanza dei brani, in grado di definire tanto il mood dell’avventura, quanto di commentarla e lasciarne emergere i vari umori. Ma stavolta è come se la pulsione si allargasse a tutti gli elementi, secondo una lezione che ricorda il del Toro de La forma dell’acqua: un film di tempi, di suoni, di colori, di iconografie che tra loro si mescolano e reinventano. Una visione in cerca della propria identità e umanità.