Limiti e confini: Upon Entry – L’arrivo, di Rojas e Vásquez

I bagagli vengono caricati in auto per raggiungere l’aeroporto, mentre a fare da sottofondo c’è una trasmissione radio che ironizza sul muro tra Stati Uniti e Messico voluto da Donald Trump e ne invoca satiricamente uno analogo fra la Spagna e la Catalogna. Conosciamo così Diego, urbanista venezuelano, e Elena, ballerina di danza moderna, i due protagonisti di Upon Entry – L’arrivo, opera prima dei registi Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez – anch’essi venezuelani e di stanza nella penisola iberica. Un incipit non casuale perché tutta la vicenda sarà un continuo erigere muri e creare separazioni fra realtà naturalmente vicine: non solo barriere reali, si badi, ma anche e soprattutto quelle che innalziamo idealmente, per tipica e fallace indole umana. Il viaggio della speranza verso una nuova vita negli Stati Uniti trascolora così in un dramma da camera che si consuma in una stanzetta dell’aeroporto di Newark, quando i due nuovi arrivati, pur con i documenti in ordine, vengono sottoposti a un minuzioso interrogatorio. Sembrerebbe una tipica lungaggine burocratica, magari figlia della diffidenza post 11 settembre che ha alzato l’asticella dei controlli verso gli immigrati, ma lentamente diventa qualcosa di più insinuante. La relativa liceità delle domande si fa confronto sempre più spietato, che inizia a relativizzare l’esistente. La percezione del mondo si contrae e si ritrova perciò fra le strette mura di quell’ufficio che “diventa” metaforicamente una tipica saletta da interrogatorio di un commissariato, dove le domande e i toni intimidatori sembrano mirati a spogliare e vivisezionare la vita dei due malcapitati e a insinuare il dubbio di una relazione di comodo che lui avrebbe instaurato con lei per ottenere il visto utile a entrare in America.

 

 
In questa terra di nessuno – chi arriva in aeroporto tecnicamente non è ancora negli States ma già non più in Europa, si ripensi a The Terminal di Spielberg – la nazione statunitense innalza così il primo dei muri virtuali della vicenda, che poi incontra una serie di moltiplicazioni e risonanze. Chi effettua l’interrogatorio è a sua volta una donna latina, apprendiamo che almeno uno dei suoi parenti ha tentato di entrare illegalmente nella nazione e perciò ora si oppone con tutte le sue forze a chi potrebbe fare lo stesso. C’è poi quel muro ideale fra Spagna e Catalogna, evocato dalla trasmissione iniziale e rilanciato dalle correzioni che Elena puntualmente effettua quando le viene fatta notare la sua provenienza dalla Spagna (“da Barcellona!”). Su tutte c’è il muro che lentamente si erge nella coppia, attraverso quella sottile dinamica psicologica volta alla ricerca del limite, della capacità dei due di reggere il fuoco di fila delle domande, delle insinuazioni e delle diffidenze. Un punto di rottura che cambia la realtà come nel colpevolmente trascurato Compliance di da Craig Zobel, del 2012, in cui una telefonata incalzante spingeva gli impiegati di un fast food a abusare di una loro collega. Il confine e il limite, dunque, la distanza è tutta qui: uno stretto spazio in cui Rojas e Vásquez consumano una piccola storia che ha però conseguenze universali per come parla di un problema più diffuso, di un mondo che traccia puntualmente distanze.

 

 
Il tutto fino al beffardo finale che ribalta ancora una volta la prospettiva e lascia il dubbio che l’intera procedura non sia stata altro che un test: un modo per seminare quella cultura della distanza degna di un bravo cittadino di fronte alla vita nuova. Presentato in anteprima al 16° Festival del Cinema Spagnolo e latinoamericano di Roma e basato in parte su esperienze vissute dai registi, Upon Entry è un film potente e scritto su performance attoriali di primo livello, sorretto da una tecnica tanto solida quanto invisibile nel suo mirabile equilibrio: Rojas e Vásquez non a caso arrivano da lavori nel montaggio e nella direzione della fotografia che mettono a frutto in una narrazione serrata, ma attenta a non diventare mai banalmente performativa, stringata ma abile a scavare margini di interpretazioni nello spettatore. Una questione di spazi, appunto, per effetto dei quali il racconto di un arrivo diventa così una parabola sul percorso che il mondo ha compiuto verso un presente diviso.