L’insopportabile disturbo alla felicità in Silent Land di Agnieszka Woszczynska

È il metaforico e manifesto finale a svelare, ove mai ce ne fosse bisogno, di quanto il peso della colpa con i suoi insinuanti effetti costituisca il vero sfondo del film dell’esordiente regista polacca.

La vicenda di Silent Land prende le mosse da un semplice assunto, da una specie di semplicità narrativa che a prima vista costituisce uno scenario perfino consueto. Adam e Anna formano la giovane coppia polacca in vacanza sul mare italiano. Hanno affittato una villa con piscina e davanti ai loro occhi si apre un panorama incantevole. Un inatteso incidente rovina la loro tranquilla vacanza. Il giovane immigrato, chiamato dal padrone di casa per riparare la piscina che non funziona, scivola e cade nella grande vasca e battendo con la testa sviene e annega nella poca acqua che si era appena raccolta. L’arrivo dell’ambulanza chiamata da Adam non può che constatarne il decesso. Seguirà un’indagine di polizia per accertare eventuali responsabilità. Ma l’indagine più spietata è quella che avviene nella coscienza dei due protagonisti per sempre condannati a un peso insopportabile.

 

 

A dispetto della semplicità narrativa Silent Land conserva una propria segreta complessità, che fa davvero da contrappeso all’apparente semplificazione del racconto. È dentro questo sfondo dai toni torbidi che va cercata la complessa ricchezza di una sedimentazione di senso che sembra potere esistere proprio e soltanto grazie a quella ricercata semplicità del racconto, senza il rischio di confondersi con i tratti narrativi di una trama complicata. Si tratta di scelte precise di scrittura e di una precisa idea di approdo del proprio lavoro e la giovane regista, che collabora alla sceneggiatura del film con Piotr Litwin, sembra avere le idee chiare. L’indagine di polizia, che segue alla tragedia avvenuta nella villa, mette a nudo la doppia verità e al contempo il film, con la sua investigazione sulla perfetta e bellissima coppia di turisti, mette a nudo la doppia morale che un tempo si sarebbe detta borghese e che oggi, invece, assume i toni di una diffusa indifferenza, di un silenzio di sentimenti che assale, da nord a sud, da est a ovest, le coscienze di molti, intorpidendo ogni reazione, anestetizzando ogni emozione, annullando ogni sentimento che possa dirsi umano.

 

 

Agnieszka Woszczynska non indulge e non perdona con le sue immagini dotate di un naturale fascino, anch’esse il risultato di una precisa scelta stilistica. Non perdona i suoi due personaggi che si dibattono dentro un reciprocamente taciuto senso di colpa per non avere mosso un dito per salvare il povero operaio malamente scivolato nella grande piscina e metaforicamente (forse l’unica vera metafora del film) altrettanto malamente annegato in quattro dita d’acqua. Il loro comportamento composto e anodino, lontano da ogni emozione, il loro aplomb quasi da spettatore televisivo davanti alla tragedia che si consuma, appare proprio conforme a una specie di perfezione della vita ricercata da Anna e Adam (e dai tanti Anna e Adam) che viene solo appena incrinata e per pochi attimi dalle notizie che giungono, dalle tragedie che si consumano.

 

Silent Land mette in scena quell’insopportabile disturbo alla felicità di una umanità diffusa lavorando sul senso profondo del suo titolo, laddove forse quella terra silenziosa è la coscienza muta di chi come Anna e Adam non sanno più reagire davanti a una tragedia che apparentemente non li riguarda più tesi, come sono, a una ricerca di eterna e indisturbata giovinezza e felicità che si esprime nella perfezione dei corpi e nella bellezza come traguardo di un edonismo senza più confini. Ma Agnieszka Woszczynska non sembra avere alcuna benevolenza verso i suoi perfetti Anna e Adam e li condanna alla sofferenza nel girone dei colpevoli, li condanna a un peso eterno, quanto la loro vita, da portare sulle spalle. Una compagnia dolorosa, silenziosa e potente che insinuandosi per sempre nelle vite dei due personaggi mette a nudo la pochezza del silenzio dei sentimenti e lo snaturarsi di ogni natura umana, di ogni istintiva emozione soffocata, nella perpetrata mutazione genetica cui si assiste, giorno per giorno. Una mutazione che non dà scampo e che Agnieszka Woszczynska crocifigge con esemplare sineddoche in un finale che non dà scampo.