L’instabile equilibrio della tegola in Il materiale emotivo di Sergio Castellitto

Cosa dovrebbe essere il materiale emotivo? È, forse, quel complesso di eventi e sentimenti che provocano le emozioni che devono essere riversate in un’opera, trovare sfogo in una attività che ripeta, come in un riflesso, quelle emozioni e, pertanto, permearsi di quelle impressioni e trasmetterle rielaborate, attraverso l’opera o l’attività, ad un pubblico. Questo dovrebbe essere il materiale emotivo di cui dovrebbe nutrirsi Yvonne (Bérénice Bejo) attrice un po’ fuori di testa che recita al Théâtre de la Providence, che un giorno entra nella libreria di Vincenzo (lo stesso regista), italiano a Parigi, che, con pazienza la gestisce, badando pure alla giovane figlia, la proustiana Albertine (Matilda De Angelis) paralizzata a seguito di un incidente, la quale vive in assoluto silenzio nella stanza sopra la ricca e antica libreria del padre. Un silenzio rotto, alla sera dalle letture del padre, da Calvino a Dostoevskij per dare senso alle notti bianche. Tra Vincenzo e Yvonne nasce una specie di storia d’amore, destinata, nella migliore tradizione delle vicende sentimentali in età, ad un distacco tanto commovente quanto atteso. Il film è tratto da un soggetto di Ettore Scola e una sceneggiatura di Silvia Scola e Furio Scarpelli, Un drago a forma di nuvola e poi, evidentemente, rimaneggiata da Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto che la firmano.

 

 

Castellitto è alla sua settima regia e sceglie il registro del cinema teatrale per questa sua ulteriore prova, improntando il film ad uno spazio/palcoscenico che resta quasi sempre uguale con poche varianti. Anche il Théâtre de la Providence, dove recita Yvonne, è racchiuso in questo spazio che funziona da palcoscenico e che, tornando al cinema di Scola, ricorda, per tratti e per senso finale del racconto, quell’ormai invisibile Ballando ballando che meglio di ogni altro ha raccontato una storia alternativa del nostro tempo appena passato. Forse è proprio questo l’aspetto più bello del film, l’avere creato questo mondo concluso, sufficiente come già lo furono altri scenari del cinema di Ettore Scola (la casa di Antonietta in Una giornata particolare, lo scenario di Concorrenza sleale con lo stesso Castellitto, e poi quelli claustrofobici di Il mondo nuovo, La terrazza e del già citato Ballando ballando). È dunque dentro questo quadro nel quale è ritagliato un angolo da cartolina della Parigi più sentimentale, con tanto di nevicate e di galeotte piogge improvvise, che si sviluppa la storia nella forma di una favola teatrale, che sfrutta il cinema come magica sovrapposizione di immagini lavorate e, come tutta l’immaginaria storia, tutto in un sopra le righe ultra decorato, ultra edulcorato. In questo spazio tra teatro, cinema e una buona dose di ridondante melassa si consuma la storia tra Vincenzo e Yvonne.

 

 

Tutto purtroppo prevedibile fin da subito, perfino le emozioni, quelle poche in realtà, quelle vere in verità latitano, forse restano assorbite dentro il piccolo e confortevole paesaggio del film, ma, comunque sia, non sanno uscire dallo schermo, forse perché non ci sono. Il materiale emotivo è purtroppo un film non solo mille volte già visto, ma alla lunga anche un racconto di cui sfugge il senso – è una storia d’amore? È un racconto di ricostruzione della propria identità? Una vicenda nella quale si legano i rapporti tra padre e figlia? – è un po’ tutto, senza riuscire a focalizzare un baricentro narrativo e costruttivo. La regia sembra più attenta al dato formale, all’estetismo insistito di cui si è detto, che a restituire organicità alla storia, dare un senso complessivo alla narrazione. Il film resta imprigionato nella sua stessa tela quasi perfetta, ma algida, in questa ricerca puntigliosa di una sorta di perfezione formale, di attenzione al dettaglio – la storia della tegola che vive in un duraturo equilibrio ne è la riprova – ma senza badare al resto che sembra affogato in una logorroica narrazione, che, benché duri poco, sembra davvero infinita.