L’intercambiabilità performativa dell’esistenza: Nimic di Yorgos Lanthimos

Grazie a Trent Film è in sala il  corto Nimic  di Yorgos Lanthimos (Dogtooth, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, La favorita, Povere creature!). Dodici minuti di disagio nichilista durante i quali Matt Dillon e Daphne Patakia animano un mondo destabilizzato e destabilizzante fatto di musica e caos, la cui narrazione si avvolge elicoidalmente attorno al tema dell’identità. Un violoncellista di professione (Dillon) dopo aver affrontato la sua giornata all’insegna della routine quotidiana, famigliare e professionale, chiede l’ora a una sconosciuta in metropolitana (Patakia). Una frase apparentemente banale che accende una sorta di maleficio per il quale la donna inizia a seguirlo in maniera sempre più incalzante fino a sostituirsi a lui, in famiglia così come a lavoro. Il pizzicato di strutture ripetitive – l’uovo che bolle, il timer, il rito della colazione, i movimenti appassionati delle dita sulle corde del violoncello, la corsa in metropolitana – si fondono in un crescendo di temi ciclici che formano il microcosmo delle identità intercambiabili dei protagonisti. Identità e crisi esistenziale paiono assurgere qui più che mai, condensatissimi, a coronamento dei piaceri contorti del cineasta di Atene. Giocato sottilmente sulla dicotomia artificio/verità, Nimic si pone come un’opera metanarrativa che torna su sé stessa con gioia sadica, un circolo vizioso che attraversa l’ambiguità linguistica della contrapposizione Nimic (dal rumeno, nulla, ma nel quale si scorge anche la radice di nimico, nemico) – Mimic (il personaggio di Patakia, colei che imita) e della frase incantesimo “Do you have the time?” – “Che ora è?” Ma anche “Ha tempo?”. Il senso di vuoto identitario a cui la visione del cortometraggio porta riecheggia oltre il termine della narrazione grazie a un uso iconograficamente sapiente dei titoli di coda, in cui i nomi di tutti coloro che hanno lavorato al film perdono lettere.

 

 

Dodici minuti di perfezione interpretativa per Dillon, la cui recitazione tonda e piena ci fa tornare alla mente la straordinaria complessità del Jack di von Trier. Lo sguardo assente e privo di emozioni di Patakia ricorda la vacuità e l’insensatezza dei fantasmi inseguitori dell’horror cult del 2014 It follows. Sempre impeccabili le musiche con cui Lanthimos punteggia lo scorrere delle immagini, tra le quali, in questo caso, spicca una composizione del pioniere sperimentale Luc Ferrari. Da un punto di vista squisitamente tecnico, le distorsioni visive di grandangoli e fisheye strizzano l’occhio al maestro – da sempre fonte d’ispirazione per Lanthimos – Stanley Kubrick, e le scenografie, in particolare degli interni, contengono echi notevoli di quelle in cui Alex e i suoi Drughi irrompono in Arancia meccanica. Come collocare quest’opera nella produzione di Lanthimos? Se in Kinetta il regista esplora la relazione tra attore e personaggio interrogandosi su quanto di ciò che siamo può essere ridotto a una riproduzione meccanica, se in Dogtooth e The Lobster sonda l’appiattimento repressivo dell’identità in forme autoritarie di società, e se ne La favorita riduce la ricerca dell’identità a una serie di transazioni fredde, in Nimic Lanthimos estende quello che pare essere il suo tema preferito fino agli estremi dell’astrazione, e l’idea di performance come rituale naturale della vita pubblica risulta intrigante al pari del suo terzo lungometraggio, Alps. In conclusione, con i suoi intensi dodici minuti, Nimic non ha nulla da invidiare ai lungometraggi che lo precedono, risultando un piccolo gioiello imperdibile.