Dalla smaterializzazione del corpo alla smaterializzazione dell’idea: nel percorso che porta Olivier Assayas dal gotico contemporaneo di Personal Shopper alla commedia virtuale di Doubles vies (in concorso a Venezia 75), la posta in gioco resta sempre il rapporto con quella parte ideale e morale della realtà che è la verità. Lieve, quasi impalpabile nella sua rohmeriana disposizione alla commedia sciorinata nel gioco dei dialoghi e nella sostanza morale delle relazioni, Doubles vies giunge dopo Personal Shopper (dunque dopo il precoce Demonlover e quindi dopo il reincarnato Sils Maria…) come un oggetto che si fa beffe delle pretese del futuro sulla materia grezza del presente. O se preferite come un horror ideale, in cui il fantasma della virtualità incarnato nei corpi digitali si allunga sulla carne e sul sangue del nostro statuto reale. Va da sé che tutte queste sono le ricadute argomentative di un film che poi Assayas costruisce davvero come una commedia degli equivoci sentimentali d’ambientazione parigina, affidandosi al più classico degli intrecci a base di tradimenti e piccole bugie: ecco dunque Alain e Selena (Guillaume Canet e Juliette Binoche), lui editore lei attrice, e poi Léonard e Valérie (la star della commedia indipendente Vincent Macaigne e Nora Hamzawi), scrittore di non troppo successo lui e portaborse di un politico progressista lei. Le loro vite sono doppie perché ognuno di loro nasconde un segreto che permette ad Assayas di focalizzare il film sull’intreccio di verità condivisa e menzogna sottintesa su cui le loro esistenze si basano: Selena ha infatti una storia di lungo corso con Léonard, mentre Alain ha una relazione con Laure, la giovane addetta allo sviluppo digitale della casa editrice. Valérie, dal canto suo, deve gestire i segreti sessuali del suo politico, facendo fronte al gioco tra immagine pubblica e verità privata al quale la sua carriera è esposta. In questa girandola di relazioni reali e fittizie, ciò di cui poi tutti discutono è lo spettro della verità incarnata nelle idee che danno forma allo spirito del mondo: le questioni di cui si parla sono infatti legate alla digitalizzazione del sapere, alla virtualità dell’immagine di sé che si comunica al mondo attraverso l’universo condiviso dei social, al rapporto tra la propria vita e la biografia condivisa più o meno volutamente/forzatamente nell’esposizione continua cui siamo sottoposti.
Olivier Assayas congegna insomma un film sulla smaterializzazione della verità nell’era della confusione tra reale e virtuale in cui il transito dall’analogico al digitale ci ha calato. Assayas sa bene che in gioco sono gli equilibri tra pensiero critico e chiacchiericcio virtuale, ovvero tra la materia dei libri e la volatilità dei twitter, tra la sofferenza degli scrittori e la vanità dei blogger… Ma il suo approccio è, come sempre, estremamente dinamico e aperto, per nulla dogmatico: il film è un’ipotesi in forma allegramente dubitativa in cui il regista lavora sul rapporto tra la politica e la società nell’epoca dell’apparenza e dell’immagine pubblica, così come sullo scarto tra la verità romanzata e l’autobiografia esposta, dietro cui si nascondono i romanzi di Léonard. Inutile dire che in un film con un tale apparato speculativo Assayas non può che dismettere fatalmente il rapporto con l’immagine filmabile, affidandosi a una regia in sottrazione, dove tutto, a partire dalla fotografia, appare sbiadito, leggero, passeggero. Tutto tranne le straordinarie prove del corpo attoriale, che lavora in assoluta armonia.