L’obliqua Venezia: Atlantide di Yuri Ancarani

Sfiorare l’immagine, la sua levigatezza e la sua natura speculare rispetto alla realtà: Atlantide  (film che ha aperto Filmmaker 2021) nasce da questa pulsione visiva, che si attaglia come fosse un cromato esoscheletro alla verità del metodo di osservazione adottato da Yuri Ancarani. Il suo cinema aderisce sempre più a questa tensione, stando nel dialogo silenzioso tra la logistica degli elementi in campo (questione di disposizione visiva degli spazi e delle figure) e la logica della realtà in scena (questione di disposizione enunciativa delle azioni e delle persone). La potenza di un’opera come Atlantide nasce proprio da questa sua tensione visiva quasi materica, tangibile e precisamente concreta: la Laguna veneziana è assunta come scenario plastico, di levigatezza quasi canoviana, uno spazio visivo che dialoga con l’astrazione del tempo scenico e si concretizza attorno alle figure degli adolescenti di cui racconta.

 

 

L’identità del film è prettamente visiva, non cerca una costruzione narrativa se non nella mappatura del tempo sospeso di questi giovani corpi che galleggiano nello specchio d’acqua delle loro esistenze. Daniele è evidentemente il convitato di pietra in questa scena, il portatore sano di una verità altrimenti assente e non a caso sarà l’unico a essere segnato da una dimensione pienamente fisica, l’unico ad avere il corpo toccato in questo balletto degli spettri nel quale si muove. Il suo sogno di velocità lo identifica col suo barchino, da potenziare con la concretezza di un furto al quale corrisponde il pestaggio da parte dei rivali e la sfida finale dall’esito estremo. Ma il suo è un tempo parallelo, la sua una presenza estranea: il pestaggio è in realtà l’esito di uno shadowboxing così come la sfida tra barchini finisce fuoricampo… Questo corpo sospeso sull’universo a filo d’acqua della Laguna è esattamente il Narciso che manca al proprio riflesso e come tale sfugge alla definizione di un mondo che per Ancarani si prospetta proprio nella linea di demarcazione tra la realtà e la propria immagine. 

 

 

La Venezia ancariana è chiaramente vista in una prospettiva inversa, a distanza dall’astrazione decadente della sua materia classica, altro per esempio dalla visione romantica di un Thomas Mann (omoerotismo dei corpi compreso). È una città che sfugge alla propria cristallizzazione e si offre alla turgida visione di una precisione cromatica quasi architettonica, l’alta definizione di un’immagine che non concede spazio alla scontornatura, al tradizionale fascino della bruma lagunare, al mascheramento delle architetture. La spinta di una astrazione che scavalca la contemporaneità del visibile e del vivibile nella pulsione puramente immaginifica dello sguardo. Sicché bisogna attendere il magnifico postfinale per accedere alla visione perfettamente ancariana di un universo declinante nell’immagine di sé. Un universo trovato a filo d’acqua, gioco d’equilibrio tra immagine reale e immagine riflessa che si offre in una prospettiva nuova, obliqua, e materializza un nuovo mondo. Quella Atlantide evocata nel titolo, qualcosa di mai visto, che supera il desiderio di Narciso e l’inganno del suo riflesso.